CORONAVIRUS: CHI PAGHERA’ IL CONTO?

di Dario Marini, Presidente Comitato Regionale Veneto PCI

Come era prevedibile, si stanno versando fiumi di inchiostro per valutare le conseguenze economiche dell’epidemia in corso e per proporre soluzioni idonee a superare la conseguente crisi. C’è di tutto e di più, dalla riscoperta delle icone keynesiane, alla riedizione aggiornata delle categorie del solidarismo cristiano. Molte ipotesi fanno un polpettone incredibile dei principi del liberismo e di quelli del welfare, conciliando l’inconciliabile. Purtroppo è quasi del tutto assente un’analisi di classe del problema di fondo: chi e come pagherà il costo del coronavirus?

Per noi comunisti, purtroppo, la risposta è scontata e univoca: saranno come sempre le classi popolari a pagare il conto! Il problema, però, è sforzarsi di formulare un ragionamento di classe serio, senza cadere in luoghi comuni e slogan settari, che renderebbero inutile ogni nostra proposta.
Con un grande sforzo di sintesi, credo si debba partire dalla denuncia dell’incredibile menzogna che sta alla base della cortina di disinformazione politica quotidianamente propinata. Attenzione, non si tratta solo delle sparate demagogiche della “banda Salvini”, ma anche e soprattutto, del gioco veramente sporco che “lorsignori” stanno facendo.

Accade che i sacri vincoli neoliberisti della BCE, primo fra tutti il dogma per cui uno Stato non può superare la soglia 3% del deficit pubblico annuale, svaniscono come d’incanto. Non potevano in alcun modo essere messi in discussione quando si trattava di servizi sociali, di tutela dei lavoratori, di pensioni non da fame, di un’istruzione pubblica gratuita e di qualità, di una struttura sanitaria pubblica efficace.

Oggi tali vincoli perdono qualsiasi valore, nel momento in cui si valuta necessario rifinanziare con fondi pubblici l’intoccabile economia di mercato, in sostanza la struttura capitalista nel nostro Paese.
Rifinanziare, con una iniezione di liquidità senza precedenti, quello stesso padronato che è il responsabile principale della crisi in cui ci troviamo. Il Covid19 è stato infatti il detonatore che ha fatto esplodere una situazione socio-economica già di per sé precaria.

Questa nuova bibbia del finanziamento pubblico è stata presentata circa un mese fa dal “nuovo” tecnico invocato come salvatore della patria: Mario Draghi. Questi ha dichiarato in pompa magna al Financial Times che “si dovrà fare tutto quanto necessario per mettere in sicurezza l’eurozona”.
Come fido scudiero del capitale egli sa benissimo, anche se ovviamente si guarda bene dal dichiararlo, che i costi di tale politica economica sono facilmente prevedibili. In primo luogo, perché, dal Mes agli Eurobond, si tratterebbe di prestiti che creano altrettanti debiti: e i debiti prima o poi devono essere rimborsati (la moltiplicazione dei pani e dei pesci purtroppo esiste solo nel Vangelo). In secondo luogo, perché qualunque strada si decida di seguire, ci sarà un inevitabile rapida crescita dell’inflazione.

Chiave strategica per scaricare il peso della congiuntura sfavorevole
su chi vive di un reddito fisso: lavoratori subalterni attivi e in pensione, ceti medi e piccola borghesia in via di proletarizzazione, i quali vedranno presto ridursi sia la propria capacità di spesa, sia i loro piccoli risparmi. Per inciso, noi comunisti ben sappiamo che il più delle volte la classe borghese ha reagito alla riduzione delle proprie ricchezze, buttandosi in larga misura e senza esitazioni a destra. In sostanza niente di nuovo sotto il sole: assisteremo al consueto scarico dei costi della crisi sui ceti subalterni, gli unici non responsabili della crisi medesima.

Un altro problema immenso sta nella quasi certezza che, con l’aumento del debito pubblico, si andrà nella direzione di un ulteriore svuotamento della democrazia formale borghese e del suffragio universale, visto che ciò che più conta, ossia le grandi decisioni di politica economica, saranno dettate dal grande capitale e imposte ai governi. In tal modo si affermeranno sempre di più le tendenze antipolitiche e qualunquiste. Alimentate, fra le altre cose, dalla certezza che imponendo il pareggio di bilancio, con inevitabili crescenti interessi su un debito pubblico in continua espansione, renderà necessario non solo esportare sempre di più di quanto si importa, ma anche accelerare il processo di svendita ai privati delle proprietà pubbliche.
Ad essere ulteriormente colpiti saranno i Comuni e gli altri enti locali che dovranno pagare, con nuovi tagli alle spese sociali, la riduzione dei trasferimenti dallo Stato: tagli inevitabili, se si sceglie la strada di incrementare in modo significativo le quote del Pil da destinare direttamente ai privati.

Questi tagli finiranno per mettere al tappeto enti locali già ripetutamente colpiti e che ora sono chiamati a un surplus di spesa, per far fronte alle tragiche conseguenze della discutibile gestione dell’epidemia.
Neppure il più incallito liberista, dunque, può negare che lo scenario che rischia di proporsi non può essere solamente considerato come il prodotto del destino cinico e baro o di una catastrofe naturale imprevedibile. Il problema politico è essenzialmente sempre lo stesso, anche se oggi si
ripropone con caratteristiche nuove e diverse. In una società divisa in classi, con interessi necessariamente antagonisti, è solo la capacità di ottenere risultati concreti nel conflitto sociale a pagare; mentre l’incapacità di mettere in difficoltà l’avversario di classe, non può che essere
pagata a caro prezzo. E, allo stesso modo, anche il più devoto dei socialdemocratici, non può più negare la necessità di affrontare in modo non retorico le problematiche della cosiddetta “democrazia economica” e dei rapporti capitale/lavoro. Questo nel contesto della necessità di un
intervento pubblico innovatore, che sia in grado di incidere sia sul versante degli investimenti e della creazione diretta di posti di lavoro, sia dal lato di una fortissima nuova regolamentazione finanziaria.

Riducendo all’osso una tematica così vasta e complessa, credo, per concludere, che come PCI dovremo lanciare alle forze politiche e sindacali della sinistra almeno quattro proposte per il breve periodo. Cose concrete e realizzabili, in grado di avviare una nuova politica economica che
trasferisca risorse dal capitale privato alle classi popolari.

  1. L’introduzione di una patrimoniale, con una franchigia relativamente alta, accompagnata però da una progressività tale da far pagare di più a chi possiede ingenti patrimoni.
  2. Una tassa straordinaria sui redditi al di sopra di una certa soglia. Persino la sinistra del Pd aveva avanzato in tal senso una proposta che però dopo qualche giorno è svanita nel nulla.
  3. Lotta senza quartiere all’evasione fiscale: intollerabile sempre, criminale in questi momenti.
  4. Creazione di una grande Banca Pubblica, partendo per esempio dalla Cassa Depositi e Prestiti, che sia in grado di svolgere una politica propulsiva per la difesa e lo sviluppo dell’occupazione.

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