di Dennis Vincent Klapwijk, Comitato Centrale PCI
Ieri sera è andato in onda, su Italia 1 alla trasmissione “Le Iene”, un interessante servizio sul rapimento di Silvia Romano, la volontaria sequestrata nel novembre del 2018 e liberata solo a maggio di quest’anno . Nel servizio verrebbe rivelato come la gestione dell’inseguimento dei rapitori e delle successive trattative con gli stessi non sarebbe stata né ben organizzata né, tantomeno, economicamente disinteressata.
In Kenya, viene spiegato sempre nel servizio, è “normalità” pagare per qualsiasi cosa. Di conseguenza gli inviati italiani sul territorio nei giorni immediatamente successivi al sequestro avrebbero avuto facoltà di elargire somme di denaro consistenti, col fine di ottenere informazioni utili al ritrovamento ed alla liberazione della Romano.
Ma il “colpo” duro di questo reportage è l’accusa che viene lanciata riguardo lo sfruttamento economico della situazione da parte di personaggi italiani, oscuri però ben inseriti nei gangli decisionali. Costoro avrebbero volutamente rallentato la conclusione del sequestro, per puro e semplice lucro. Non solo: persino gli stessi rapitori della Romano sembrerebbero essere stati trasferiti, assieme alle famiglie, in Europa in seguito ad un accordo siglato durante la negoziazione.
Interessante notare che tutto questo sarebbe cominciato durante il periodo di Matteo Salvini come Ministro dell’Interno, ovvero colui che ha sempre garantito come la difesa degli interessi degli italiani fosse la sua priorità, contro tutto e tutti. Al punto di indossare qualunque vestito campanilista o professionale (dalle felpe calcistiche alle giacche della polizia) fino a meritarsi il rispettoso appellativo di “Mister Felpa”.
Sì, essendo lui un soggetto noto per la scarsa simpatia rivolta ai volontari che partono per il terzo mondo, di certo non è mai stato un estimatore delle scelte di persone come Silvia Romano. Però sarebbe certamente un duro colpo per l’immagine del buon “Mister Felpa” il fatto che, tra un selfie ritraente il suo panino ed un rapido cambio di vestito campanilista, le operazioni gestite anche da strutture italiane abbiano infine portato al guadagno elevato di pochissimi personaggi, alla successiva introduzione sul territorio europeo di soggetti giudicati pericolosi criminali ed al ritardo lunghissimo nella liberazione di una ragazza di ventitré anni.
Detto questo, il reportage poneva appunto l’accento sull’ indegna questione dello sfruttamento di una simile tragedia per il tornaconto economico. E’ triste osservare come però ci stupisca poco, in realtà, un tale comportamento all’interno del nostro sistema.
Se si ha come unico punto focale della propria realizzazione personale il profitto, cosa può importare della tragedia vissuta da una giovane, dalla sua famiglia, dagli amici delle stesse? Evidentemente il guadagno val bene i mesi della sofferenza di un’altra persona.
Questo esempio dunque sarebbe solo l’ennesimo caso, in questa particolare situazione eclatante, dei fin troppo frequenti comportamenti osservabili quotidianamente nel nostro sistema, che non a caso definiamo spesso e volentieri “barbarie”.
La barbarie del guadagno, dell’egoismo, della sofferenza inferta.