11 settembre 1973: a 50 anni dal golpe militare

a cura del Dipartimento Esteri – Partito Comunista Italiano

L’11 settembre 1973 un colpo di Stato civico militare sostenuto dall’oligarchia interna e dagli USA soffocò nel sangue il tentativo di costruire in Cile una società socialista fondata su democrazia, pluralismo politico e partecipazione di massa.

Il 3 settembre 1970 la coalizione di Unità Popolare (socialisti, comunisti, cattolici di sinistra, radicali e partiti minori) aveva vinto le Elezioni Presidenziali con Salvador Allende, socialista marxista, che avviò un profondo programma di riforme antimonopolistiche e anticapitalistiche, nel pieno rispetto della libertà dei cittadini, senza arrestare nessuno per motivi politici né chiudendo partiti né stampa d’opposizione.

Ma proprio coloro che si riempiono continuamente la bocca con la parola “libertà” e vogliono invece semplicemente difendere i loro privilegi, provocarono un clima sempre più acuto di scontro interno, fino ad arrivare al golpe militare.

Chi di noi non è più giovane ricorda di aver avuto un vicino di casa esule dal Cile, di aver partecipato a manifestazioni contro la dittatura nelle strade e piazze italiane assieme a compagni cileni esiliati.

Ma coloro che 50 anni fa uccisero la speranza del Cile sono ancora lì e stanno tramando, esattamente come nel 1973, per togliere di nuovo alle lavoratrici e ai lavoratori, al popolo di Allende, il diritto a governare per costruire una società più giusta.

“Vogliono di nuovo macchiare la mia patria di sangue operaio, quelli che parlano di libertà ed hanno le mani nere. Quelli che vogliono separare la madre dai suoi figli e vogliono ricostruire la croce portata da Cristo. Vorrebbero nascondere l’infamia che si portano addosso da secoli, ma non riusciranno a dissimulare il loro volto da assassini!”, cantava nel 1973 Victor Jara, riprendendo il titolo di una raccolta di poesie di Miguel Hernandez.

La vittoria di Gabriel Boric nelle Elezioni Presidenziali del Cile ha iniziato un tentativo riformista che si propone di porre fine alle politiche neoliberiste che, durante la dittatura di Pinochet e nel successivo trentennio “democratico”, hanno privatizzato praticamente tutto il privatizzabile.

Il governo del Presidente Boric, composto da due coalizioni di sinistra e centrosinistra e dove ci sono anche ministri e sottosegretari comunisti, è sempre più nel mirino dell’oligarchia rappresentata dalla destra, che lo sta ostacolando in tutti i modi e punta alla sua destituzione.

Dopo la bocciatura elettorale del progetto di Magna Carta progressista con il 62% di voti contrari è stato eletto un Consiglio Costituzionale chiamato a scrivere un nuovo progetto di Costituzione che dovrebbe sostituire quella vigente, voluta da Pinochet.

La destra nostalgica della dittatura ha ottenuto un’ampia vittoria nel voto. La sinistra e il centrosinistra non hanno conseguito nemmeno il numero di seggi necessario a porre il veto all’interno del Consiglio (sarà necessaria una maggioranza qualificata del 75% per approvare gli articoli della nuova Costituzione).

La destra nel suo complesso ha ottenuto il 56,5% (il 35,5% al Partito Repubblicano, di estrema destra).

Sta quindi scrivendo una costituzione neoliberista e anticomunista, in continuità ideologica con quella di Pinochet e per certi versi ancora peggiore.

La destra cilena erede del regime di Pinochet, con l’appoggio (come ai “bei tempi” del golpe) della Democrazia Cristiana, ha impedito che la Camera delle Deputate e dei Deputati del Cile votasse a favore del finanziamento (nell’ambito del bilancio statale di previsione 2023) dell’Istituto Nazionale dei Diritti Umani (INDH) e per il programma del Patrimonio Culturale dal quale dipendono enti come il Museo della Memoria e dei Diritti Umani.

Dopo la sconfitta delle forze di Sinistra e del governo progressista nel referendum per una nuova Costituzione, la tradizionale oligarchia cilena è all’attacco su tutti i fronti. In primo luogo ponendo veti contro la nomina di rappresentanti del Partito Comunista in enti statali e di governo, attaccando inoltre quotidianamente l’operato dei ministri e sottosegretari comunisti.

La destra e (sempre di più) anche settori del centro, cercano di bloccare ogni riforma, a partire da quella pensionistica che mira a togliere almeno in parte il sistema previdenziale alla speculazione privata.

Nubi nere si addensano su un governo che non ha la maggioranza parlamentare ma che, nonostante ciò (grazie anche alla ministra comunista del Lavoro), è riuscito ad ottenere risultati come il limite giornaliero di otto ore lavorative e che le destre stanno cercando di affossare, con la complicità di ampi settori di Carabinieri, Forze Armate e Magistratura, in uno scenario che ricorda il boicottaggio del governo di Unità Popolare di Salvador Allende prima del golpe di Pinochet.

A 50 anni dal golpe militare la società cilena è più divisa sul passato di quanto non lo fosse 10 anni fa, con da una parte un 36% di cittadini che dicono di rimpiangere la dittatura e dall’altra un movimento popolare che, dopo il totale riflusso della rivolta popolare del 2019, appare ripiegato su se stesso, anche se con segni di ripresa soprattutto in campo sindacale e nel mondo scolastico e universitario.

L’11 settembre di quest’anno vedrà, ancor più che in passato, confrontarsi da una parte il Cile dei “momios”, ricchi e speculatori che pensano di godere di tali privilegi per diritto divino e dall’altra le lavoratrici e i lavoratori, le donne e gli uomini che intendono aprire gli ampi viali da dove “passerano gli uomini liberi per costruire una società migliore”. Gli sfruttatori e i parassiti di sempre commemoreranno Pinochet, mentre il popolo di Allende riaffermerà che “el pueblo unido jamas sera vencido”.

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