Sulle tragedie del lavoro

La pacchia, il caporalato, il lavoro nero o regolare, sottopagato e sfruttato.

Leggendo i titoli di oggi rispetto alle tragedie di ieri si nota quanto le distinzioni siano fuorvianti.

Chi lavora contribuisce al funzionamento ed allo sviluppo della società.

In questo paese di lavoro si muore, ogni giorno di più. Meno garantito è il lavoro più è facile morire. Si muore di insicurezza, si muore di stanchezza, si muore in viaggio.

Lavoratori regolari o in nero, italiani di nascita o di adozione, migranti regolari e clandestini. Il rischio è per tutti il medesimo quando il lavoro non è garantito, non è sicuro.

Laddove non ci sono diritti, si china la testa, per mangiare, per vivere. Si è disposti ad accettare condizioni prive di tutela e dignità, a lavorare troppe ore di seguito senza riposi, a turni massacranti o viaggi senza sosta.

Non c’è differenza quando nel mercato del lavoro il coltello dalla parte del manico lo ha chi ritiene legittimo lo sfruttamento e la legge, spersa in una miriade di contratti atipici, consente che lo sfruttamento sia legittimo.

Perché di questo si tratta: lo sfruttamento della forza lavoro. Altro che dignità. In un paese che avrebbe risorse enormi per creare posti di lavoro, col solo patrimonio storico-artistico e naturale, anziché fare un piano del lavoro che garantisca la piena occupazione, si favorisce la guerra tra occupati garantiti (sempre meno in verità), occupati a tutele crescenti, occupati non garantiti e disoccupati.

A chi giova continuare a dividere? A chi conviene che alle distinzioni precedentemente citate si aggiunga anche quella tra italiani e migranti?

Dovremmo dire ‘a chi giova dividere la classe’? Ma la cultura del lavoro oggi è persa, quella cultura collettiva che 50 anni fa ha prodotto diritti è stata schiacciata dall’individualismo, dalla novella dei lavoratori che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità ed ha ceduto il passo al ‘tutti contro tutti’, alla cattiveria, alla ricerca del capro espiatorio in un paese che garantisce privilegi a pochi e non diritti e dignità a tutti.

Quella cultura del lavoro, quella coscienza di chi ha il potere di fermare il paese, quella capacità di sentire su di sé il dolore degli sfruttati, dei deboli degli ultimi, è tutta da ricostruire.

Più di 400 morti sul lavoro dall’inizio del 2018, una strage che dovrebbe imporre al governo una sola priorità, quella di garantire sicurezza. Ma solo un paese che garantisce occupazione e dignità ai lavoratori può garantire loro anche la sicurezza di tornare a casa dopo una giornata di lavoro.

Si preferisce, invece, distinguere ancora e di più in base alla provenienza di quei corpi.

Noi no, i comunisti hanno il compito di lavorare ancora e ancora per rendere i problemi degli uni, problemi degli altri. Problemi della società, collettivi. Dobbiamo rivendicare il diritto al lavoro. A tal fine abbiamo il dovere di organizzare lavoratori, disoccupati, sfruttati, disperati. Perché il problema è uno: la mancanza di diritti e di garanzie permette che aumenti il profitto. Poco importa se a morire è un lavoratore al nero, regolare o clandestino o a partita IVA che si sta autosfruttando per vivere. Abbiamo il dovere di dirlo, di combattere la divisione, di unire. Unire lavoratori disoccupati, studenti nella lotta per una società migliore.

Diritto al lavoro stabile e sicuro che garantisca una vita dignitosa, l’Italia ha le risorse per garantirlo, riducendo la sperequazione e redistribuendo la ricchezza, lo Stato ha il compito di farlo.

A noi il compito di rifiutare la rassegnazione a che tutto ciò sia inevitabile, quasi normale, di pungolare i sindacati affinché nel paese ci sia una reazione che imponga al governo di mettere al centro dell’agenda politica la questione del rilancio del lavoro in piena sicurezza per i lavoratori e l’adeguamento dei salari al costo della vita.

Solo dai diritti passa il diritto a lavorare per vivere e a non morire di lavoro, di qualunque nazionalità sia colui che in quel momento stia contribuendo al progresso della società di questo paese.

 

di Lucia Mango, Segreteria naz.le PCI e Responsabile Lavoro

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