Dal governo italiano a Macron; dagli USA alla Russia, da Tripoli alla Cirenaica: come si sviluppano le nuove contraddizioni interimperialistiche e come si lotta per una nuova Libia indipendente e unita
Perché, in quest’ultimissima fase, la crisi libica di nuovo si acutizza? Perché ritorna lo spettro di una vasta guerra tra le fazioni libiche? Perché aumentano, attorno alla Libia, le contraddizioni e le lotte interimperialistiche? Perché la Settima Brigata (di stanza a Tarhouna, città a 60 km da Tripoli, sono allo scorso anno facente parte delle forze militari di Tripoli, poi sciolta dal Primo Ministro di Tripoli Fayez-Al Serraj e avvicinatasi al generale Kalifa Haftar, leder della Cirenaica) lo scorso 2 settembre ha attaccato Tripoli, producendo una sessantina di morti, spinta dallo stesso Haftar e ancora più dalla Francia di Macron? Per districarsi nell’apparente ginepraio libico post Gheddafi occorre assolutamente ripartire dal 19 marzo del 2011, quando inizia la guerra degli USA, della Francia e dell’intera NATO ( compresa l’Italia, che partecipa con cacciabombardieri e basi aeree) contro la Libia. Prima ancora dell’attacco militare dell’intero fronte occidentale-imperialista, gli USA e la Francia finanziano lautamente e armano accuratamente sia le tribù che i gruppi islamici contrari a Gheddafi. Le infinite riserve petrolifere e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile ( l’oro bianco libico), i grandi fondi sovrani libici ( circa 200 miliardi di dollari), frutto della nazionalizzazione, da parte di Gheddafi, delle ricchezze nazionali; la stessa, centrale, collocazione geostrategica della Libia, assieme al pericolo politico rappresentato da un Gheddafi che lavora assiduamente, con Nelson Mandela, per un’Africa indipendente e autonoma dagli USA e dalle potenze imperialiste, con il progetto di costituzione di una Banca Africana e di una moneta africana alternativa al dollaro ( “pericolo” rimarcato e contro il quale occorreva la guerra, come si diceva nelle mail dell’allora Segretario di Stato USA Hillary Clinton): tutto questo è alla base dello smisurato attacco militare imperialista e NATO con la Libia. Per la Francia dell’allora presidente Nicolas Sarkozy – trascinatore primario dell’attacco alla Libia – vi era anche un obiettivo tutto francese: tornare in Libia da protagonista economico e neocolonialista, progettando di ridurre notevolmente il ruolo – di grande peso – che l’Italia svolgeva, in senso politico ed economico, in Libia. Un disegno francese che tuttora dura – ed è anzi centrale nella nuova crisi libica di questo settembre 2018 – con Macron e ci fa dire, anche da questo punto di vista, che la partecipazione dell’Italia alla guerra contro Gheddafi fu non solo un atto di feroce pirateria imperialista, ma anche un atto suicida in relazione agli interessi nazionali italiani.
Tra i prodotti della guerra imperialista e NATO contro la Libia, oltre la distruzione di uno dei Paesi tra i più avanzati – sul piano dello sviluppo economico, sociale e civile – dell’Africa; oltre la distruzione di un progetto continentale anticolonialista; oltre un genocidio e la trasformazione di due milioni di lavoratori africani giunti nella Libia industrializzata da Paesi diversi dell’Africa in un disgraziato “popolo dei barconi”, oltre tutto ciò il prodotto della distruzione militare imperialista fu la cancellazione dell’unità libica costruita da Gheddafi ed il ritorno all’antica Libia delle tribù, alla nuova tribalizzazione del Paese. Una parcellizzazione territoriale libica particolarmente funzionale alla suddivisione del Paese secondo i vari interessi e campi d’azione imperialisti e neocolonialisti.
Ed è da qui che occorre partire per capire l’attuale acutizzazione della crisi libica. Dopo la guerra, sulle macerie di quell’assassinio internazionale impunito, due aree “tribali” ( oltre quella in gran parte desertica del Fezzan, che la guerra USA-NATO trasforma nell’area di dominio jihadista) prendono maggiore consistenza: quella di Tripoli, guidata da Fayez- Al Serray, riconosciuto dalla “comunità internazionale” come Primo Ministro dell’area tripolina, e quella della Cirenaica, ricchissima di petrolio e gas, guidata dal generale Kalifa Haftar.
Al Serray è un ingegnere, figlio di grandi latifondisti libici, politicamente un’anatra zoppa, un leader dimezzato e debole messo a capo del Governo d’Accordo Nazionale tripolino il 17 dicembre 2015 direttamente dagli USA, da Obama. Sostenitore dell’attacco imperialista e NATO contro il proprio Paese, le sue posizioni sono totalmente filo americane e filo italiane.
Il generale Haftar è stato un militare e un uomo forte di Gheddafi, per il quale combatté contro il Ciad negli anni ’80. Identificato da Washington come leader da contrapporre a Gheddafi, fuggì negli USA, il governo libico lo condannò a morte finché, Haftar, tornò in Libia dagli USA per combattere a fianco dei ribelli anti Gheddafi. Le sue capacità militari e di comando l’hanno portato a divenire il leader di Tobruk e di tutta la Cirenaica, con posizioni segnate da un antimperialismo di fondo, col progetto di una Libia di nuovo unita e indipendente (progetto condiviso e sostenuto da Putin) e, dunque, conseguentemente, nel groviglio anche geopolitico post bellico, anche filo russe. Non casualmente, infatti, Haftar ha viaggiato più volte verso Mosca, in questi anni, nell’intento di irrobustire il rapporto tra Cirenaica e Russia.
Nel 2014, tra le due aree libiche di Tripoli ( non parliamo volutamente di Tripolitania poiché Al Serraj non governa tutta questa regione e la sua leadership si estende solamente su Tripoli, mentre sulle terre intere della Tripolitania bivaccano e comandano altre tribù) e della Cirenaica scoppiò la cosiddetta “seconda guerra libica”, che terminò nel marzo del 2016 in un accordo di pace sotto l’egida dell’ ONU e che portò alla costituzione ufficiale, appunto, del governo di Al Sarraj a Tripoli e quello di Haftar a Tobruk.
Nella finta pace successiva all’accordo ONU del 2016 sono iniziate le grandi manovre delle forze statuali ed economiche internazionali finalizzate a costruire – ognuno dal proprio punto di vista e dal punto di vista dei propri interessi, economici e geopolitici – un nuovo ordine libico.
Gli USA hanno puntato e puntano a sorreggere, nell’intento di allargare l’influenza oltre Tripoli e in un disegno generale antirusso, sul governo di Al Sarraj, fantoccio docile e completamente nelle mani dell’Amministrazione americana. Ma la punta di lancia che usa per i propri scopi Trump a Tripoli è l’Italia, che insegue l’obiettivo di ripristinare la propria, vecchia e tradizionale politica colonialista in Libia. Da questo punto di vista di grande e strategica importanza è stato l’accordo che l’ENI ha recentemente siglato a Tripoli sull’estrazione di gas. Nel comunicato ENI del luglio scorso si afferma che è stato avviato, in partnership con la società libica NOC, la produzione del primo pozzo del progetto offshore Bahr Essalam Fase 2, il più grande giacimento di gas offshore in Libia. Un evento di grandi e per molti versi insperate proporzioni, dato che le condizioni materiali non davano affatto per scontato che, dopo la caduta di Gheddafi e la partecipazione dell’Italia alla guerra, l’ENI, presente dal 1959, potesse tornare in Libia.
Ma l’ENI e il governo italiano attuale (Di Maio-Salvini), per tornare in Libia così in pompa magna, col nuovo e inappuntabile vestito neocolonialista dovevano conquistare il “nulla osta” di Trump, che hanno ottenuto nel lungo faccia a faccia tra il Presidente statunitense e il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte nell’estate scorsa. Certo, il “nulla osta” di Trump all’Italia non è stato un regalo: per ottenerlo il governo giallo-verde italiano ha dovuto ribadire solennemente la propria linea politica internazionale filo-USA, l’impegno volto al rafforzamento del contributo economico italiano per le spese NATO e la difesa (anche militare) del governo Al Serraj di Tripoli contro le eventuali “mire” del generale Haftar e di Putin. Una posizione, quella assunta dal governo italiano a Washington per favorire il ritorno dell’ENI in Libia, certo non in linea con le posizioni apparentemente filo russe di Di Maio e, soprattutto, di Salvini. Posizioni “ filo-russe” peraltro già smentite, nei fatti, dall’accettazione e la firma degli ultimi documenti dell’Ue, nei quali le sanzioni contro la Russia si sono persino rafforzate. Tutto ciò a dimostrazione che il vero e sinora più palese limite del governo M5S-Lega (oltre ad altri, tra cui l’inclinazione fondamentalmente confindustriale e razzista di Salvini) sta proprio nell’assunzione piena delle politiche atlantiste e filo NATO. Proprio come nella più profonda tradizione dei governi di centro-destra e centro-sinistra degli ultimi vent’anni in Italia, per non parlare della DC.
E’ proprio questo connubio USA – Italia, volto a riportare l’ENI e il colonialismo italiano in Libia e, naturalmente, un dominio politico e militare USA nella regione, a far scattare l’allarme in Francia e spingere Macron ad un’altra linea: quella di una progressiva presa di distanza da Tripoli e da Al Serraj per una nuova vicinanza e “amicizia politica” con Tobruk e il generale Haftar. Una nuova “vicinanza” che non può che supporre un nuovo e positivo rapporto con la Russia di Putin. Ed è all’interno di questa strategia che vanno valutati gli ultimi movimenti di Macron: primo, il disegno, perseguito assieme al generale Haftar, di “spacchettare” la più grande compagnia petrolifera libica ( la NOC, National Oil Compagy), legata al governo di Al Serraj ma distesa sull’intero territorio libico, “spacchettarla” al fine di indebolire ancor più Tripoli, al fine di destinarne una parte rilevante, con significative partecipazioni francesi, a Tobruk e ad Haftar e al fine di generare una acutizzazione generale dello scontro libico nell’obiettivo di far cadere definitivamente Al Serraj. E’ per perseguire questo progetto di destabilizzazione di Tripoli ( anche contro l’talia ) che Macron ha spinto (o è stato direttamente il protagonista centrale) per l’attacco della Settima Brigata contro Tripoli lo scorso 2 settembre.
Il 29 maggio di quest’anno, Macron aveva organizzato a Parigi un incontro sia con Haftar che con Al Serraj, per annunciare le elezioni in Libia per il prossimo 10 dicembre. Le scelte successive di Macron, anche alla luce del nuovo protagonismo politico ed economico USA-Italia a Tripoli, hanno rapidamente smascherato la natura ipocrita del summit di Parigi, nel quale già viveva la preferenza (tutta finalizzata agli interessi neocolonialisti francesi, finalizzata a sostituire, in Libia, l’ENI con la Total), di Macron per Haftar, in funzione anti italiana ( peraltro era stato lo stesso Romano Prodi , nel 2011, ad affermare che “la guerra contro la Libia l’ha fatta la Francia” mettendo a fuoco la “stoltezza” del governo italiano di allora, guidato da Berlusconi, nell’aderire ad una guerra, quella contro Gheddafi, che andava pesantemente contro gli interessi dell’ENI e dell’Italia).
Come si muove, Macron, per rendere più conseguente e palese la propria nuova linea pro Haftar e, dunque, apparentemente, pro russa? Innanzitutto rilanciando l’idea di una “Grande Europa” ( già cara a De Gaulle) che trovi nella relazione forte dei Paesi europei – specie Francia e Germania – con la Russia un nuovo “architrave”. Questo è stato il progetto lanciato dal Presidente francese, negli ultimi mesi, sia in Finlandia che a San Pietroburgo : “Vogliamo che l’Europa abbia un’autonomia strategica e difensiva per ricostruire complessivamente l’architettura europea della sicurezza e da ciò la necessità di ripensare le nostre relazioni con la Russia”, ha affermato Macron. Andando ancora più avanti: “ Per l’Europa questo è il tempo del realismo. Parigi deve sviluppare una partnership strategica non solo con la Russia ma anche con la Turchia, pur non prevedendo la sua adesione all’Ue”. Posizioni di Macron che indussero Trump, nel suo viaggio in Europa, ad attaccare pesantemente gli alleati storici degli USA e ai quali attacchi Macron rispose rilanciando l’asse franco-tedesco, in una visione di parziale autonomia dalla NATO. Aggiungendo: “ Su questioni come la cybersecurity, la difesa, le relazioni strategiche dobbiamo definire le linee guida di nuove relazioni tra Russia e Ue”. Affermazione di Macron allora molto apprezzata dal Ministro degli Esteri russo Lavrov.
Ma, in verità, qual è il giudizio di Mosca sulla linea Macron? Occorre dire che è un giudizio molto attento e cauto, ben consapevole della natura ondivaga e transeunte delle posizioni di Macron, delle sue oscillazioni derivanti dagli interessi nazionali e capitalistici francesi. Quando, infatti, nella fase in cui Macron rilancia l’idea di una “Grande Europa sino a Mosca” e “ l’Express” londinese, assieme a tutta la stampa anglosassone, si chiede se “Macron non sia sul libro paga di Putin”, il Presidente francese, nella fase estiva appena trascorsa, arretra immediatamente, aggiungendo alla suo fatiscente progetto di “un’Europa alla De Gaulle” un “codicillo” volto a tranquillizzare sia l’Ue che gli USA: “ La prospettiva della partnerschip strategica con la Russia sulla difesa sarà possibile solo se Putin non ha in testa di smontare l’Ue”. Una precisazione emblematica che suscita immediatamente la reazione, sorniona e consapevole, del portavoce di Putin, Dmitry Peskov, che risponde: “Dato che l’Ue è il principale partner commerciale ed economico della Russia, siamo interessati perché essa prosperi, sia credibile e stabile e Putin ha ripetutamente espresso il proprio interesse a migliorare le relazioni con i partner europei”.
Dal punto di vista della non credibilità, delle difficoltà oggettive che hanno di concretizzarsi le “nuove” posizioni francesi relative sia ad un distacco dagli interessi primari USA che al progetto “di una nuova Europa sino a Mosca”, il “caso Siria” è probante: in relazione all’attuale ripresa dello scontro Russia – USA sulla questione siriana (sulla questione, cioè, tutta legittima, del disegno di Assad di liberazione totale della Siria dal terrorismo jihadista e di ricostruzione dell’ unità nazionale siriana) Macron è stato chiaro: “E’ necessario che le truppe americane di stanza in Siria rimangano anche quando l’ultimo terrorista verrà annientato e rimangano per costruire una Siria nuova”. Un’affermazione, questa del Presidente francese, che ha subito fatto scattare la risposta, altrettanto netta, di Lavrov: “ Ci hanno sempre detto che la coalizione americana opera in Siria esclusivamente per eliminare la minaccia del terrorismo, non per rimanere a costruire una Siria nuova. Vorremmo da Macron un chiarimento”.
In verità, oggi, sotto la spinta USA-Italia ad occupare economicamente, politicamente e militarmente Tripoli ( col progetto di andare oltre Tripoli), la Francia di Macron sposta la propria attenzione su Haftar e dunque, inevitabilmente, sulla Russia. Il rientro della Francia ( e della Total) in Libia è il vero obiettivo da conseguire, importante per il rafforzamento francese in tutto il Medio Oriente e verso l’Africa. Per un progetto neocolonialista di questa portata si può anche essere transitoriamente simpatizzanti di Mosca. Anche se Mosca è vigile. Ancor più vigile poiché è proprio verso l’Africa che Macron punta a ripristinare e consolidare la posizione imperialista e colonialista francese, specie in quella vastissima area africana dove l’egemonia di Parigi è di lunga data: l’area mediterranea e il Sahel. Per Macron egemonizzare il Sahel, il Nord Africa e la stessa Libia vuol dire avere in mano le chiavi della sicurezza e della politica europea, e ciò anche per scalzare la Germania dalla leadership sull’Ue. Ma questa posizioni neocolonialista già ampiamente praticata, e non solo progettata, mette Macron sin da subito in contrapposizione netta con le politiche russe nell’Africa del Nord. Sino al punto che le aperture francesi sulla “Grande Europa sino a Mosca” diventano, appena pronunciate, risibili. Per non parlare poi della politica conseguentemente imperialista che oggi Macron continua in Niger, Paese ricchissimo di uranio, che la Francia utilizza, una volta sottratto al Niger, per garantire il 70% della propria produzione di elettricità nazionale. E naturalmente la feroce presenza militare e politica dei francesi in Niger ( come nella Costa d’Avorio) è un oggettivo elemento di dura contrapposizione sia con l’Italia ( che vorrebbe ma non può, per il diktat francese, mettere piede in Niger) sia con la Germania che con che la Russia e la Cina.
In questo quadro generale, ciò che resta della Libia, come si vede, è oggi una sorta di grassa vacca petrolifera e gassosa azzannata da tutti i denti imperialisti, da quelli italiani a quelli francesi. Tutto può cambiare, in quel quadro tribalizzato e degenerato sorto dopo il brutale assassinio imperialista di Gheddafi; potrebbero persino mutare le posizioni di Haftar. Ma se oggi (oggi) dovessimo dire da che parte debbono stare le forze comuniste e antimperialiste nel nuovo inferno libico, non dovremmo avere dubbi nel dire che dovrebbero stare dalla parte di Haftar, che ha un progetto di Libia unita e antimperialista ( e a partire da ciò stringe rapporti sempre più forti con Mosca) e contro il governo Quisling di Al Serraj, cavallo di Troia per la penetrazione imperialista in Libia e fautore di una Libia feudalizzata e tribalizzata funzionale alla diverse mire dei diversi poli imperialisti. Il governo giallo-verde italiano ( pur fingendo anche relazioni con Haftar) ha scelto di stare dalla parte degli USA, con Al Serraj. E’ un errore che ci parla del carattere attualmente atlantista sia della Lega che del M5S. Un carattere che fa il paio con una inclinazione giallo-verde essenzialmente subordinata all’Ue, al di là di quanto si faccia vedere di abbaiare alla luna.
di Fosco Giannini