Chiudere la faglia. Riflessioni sulla storia dei comunisti

Mentre più di una crepa e qualche voragine si aprono e si allargano qua e là nel sentimento democratico di quell’Europa che sembrava graniticamente costruita sulle certezze del suo ultimo dopoguerra, alcuni valorosi, a trent’anni dalla caduta del Muro, cominciano a chiedersi che cosa si sia rotto e cosa abbia smesso di funzionare. E perché.

L’impressione generale è che, nella lettura delle questioni internazionali come di quelle nazionali, ci si trovi assuefatti e imbambolati di fronte a catene stratificate di paradigmi che ormai abbiamo fatto nostri ma che non ci convincono più e che non sappiamo come affrontare essendo venuti meno, negli anni, il coraggio o la capacità critica. Del resto, questa è la nemesi che ci spetta quando cominciamo a seguire la logica delle guerre giuste, dei costi della democrazia, e per di più in totale assenza di un’informazione adeguata. Delle decine di esempi raccapriccianti ne prendiamo uno a caso: la Libia. La realtà in quel Paese, dopo l’intervento armato dell’Europa e degli USA, oggi ci parla di una guerra civile e di crimini contro l’umanità perpetrati sotto i nostri occhi ogni giorno. Che posizione assumere? Tragico dilemma perché se condanniamo l’esistente si rischia di riabilitare Gheddafi che però non era ‘democratico’ mentre invece i democratici siamo noi, per antonomasia, che però abbiamo determinato il carnaio. Il risultato è la passiva posizione di chi spera che tutto finisca presto per toglierci dall’imbarazzo di dover minimamente intaccare il paradigma che la democrazia siamo noi. Ci sembra la posizione sostanziale dei movimenti a difesa del restare umani che proliferano in questi mesi. Trent’anni fa per fatti del genere il PCI sarebbe sceso in piazza con milioni di persone e lo avrebbe fatto per la pace e la democrazia.

Certo anche il PCI era democratico ma aveva un altro modo di leggere i fatti, era culturalmente e politicamente autonomo, mentre oggi il pensiero è ‘unico’, come dire assai meno democratico.

Forse c’entra poco ma esiste, e ci incuriosisce assai, un filone di ricerca e relativa rilettura storiografica riguardante il maledetto capitolo del comunismo che si sta lentamente ingrossando nell’apparente disinteresse dei più, filone fisiologicamente marginalizzato a prescindere dal rilievo oggettivo dei nuovi dati riscontrati.

L’impressione nitida che ne traiamo è che si cominci a disegnare una svolta nella comprensione di quel che accadde, svolta che dovrebbe essere da noi esaminata con più attenzione perché portatrice di cambiamenti, anche di prospettiva futura, anche di ampio raggio, ben oltre i confini di quello che da sempre viene considerato un mondo a sé, il mondo comunista.

Cominciamo con il considerare come nodale la frattura verticale nel movimento comunista internazionale che si è attivata negli anni attorno alla dicotomia ideologica ossificatasi tra comunismo realistico e utopistico e, in termini più crudamente esplicativi, tra stalinismo e trozkismo.

Ogni conflitto interno al movimento, internazionalmente e nazionalmente articolato si è, prima o poi, attivato attorno a questa faglia determinando un’inconciliabilità di posizioni che si è trascinata immutata sino ad oggi complicando, da un lato, ogni passo di una ricostruzione complessiva che ci appare sempre più necessaria e dall’altro interferendo negativamente con la corretta percezione di una intera fase storica e, in definitiva, interferendo negativamente con la costruzione del nostro concetto di democrazia.

Il problema, sino ad ora, è che la lettura dei fatti sembrava non desse scampo: da una parte risultati sociali concreti e un imprescindibile ruolo nella costruzione della pace mondiale ma in un sistema autoritario, a costo di crimini orrendi e di una stasi nella progressione rivoluzionaria esitata nel crollo dell’URSS. Dall’altra una purezza di ideali che fa dell’inconcludenza apparente una forza a fronte dei torti subiti e dei fallimenti certificati degli avversari.

Già illustri storici, Losurdo e Canfora tra gli altri, si sono cimentati faticosamente nel dimensionare correttamente le leggende nere fiorite nei decenni attorno alle concrete esperienze del comunismo internazionale, contributo questo che risulta fondamentale quantomeno nel ridare comprensibilità ad una storia del Novecento che altrimenti risulta dominato da una borghesia mercantile di nulla responsabile se non dei propri successi nella costruzione del ‘mondo libero’.

La faglia scricchiola ma resiste e Losurdo viene da più parti, a sinistra, rintuzzato. Renato Caputo scrive: ma come fa Losurdo a ritenere un limite fondamentale della dirigenza post-staliniana la condanna a morte senza processo del famigerato L. Berija direttore dell’apparato repressivo e ‘massacratore di bolscevichi’?

Ecco che, ad ogni passo, rientrano in campo, con tutta la loro apparente indiscutibilità, i paradigmi storici della divisione.

Ricordiamo dunque alcune parole dell’introduzione che lo storico Grover Furr ha fatto alla sua pubblicazione “Kruscev mentì” (2011): se avessi scoperto che dei 63 capi d’accusa contro Stalin contenuti nel rapporto Kruscev al XX congresso del PCUS una decina erano infondati sarei stato accreditato di un ottimo lavoro di storico, avendo invece scoperto che sono tutti falsi mi trovo nella scomoda condizione di dover ribaltare un paradigma assoluto per essere apprezzato, e questo non accadrà.

In effetti tramite quel testo apprendiamo, oltre al resto, che Berija divenne membro dei servizi segreti sovietici sul finire del ’38, mentre prima era oscuro dirigente regionale insignito dell’Ordine Lenin nel 1935 per i meriti acquisiti nell’aumento della produzione agricola. Dunque con le famigerate purghe non c’entra nulla o quasi e sicuramente non c’entra con la fucilazione di migliaia di quadri bolscevichi, mentre c’entra, invece, Ezov, allora capo dell’NKVD, che per quelle persecuzioni “immotivate” venne processato, condannato e fucilato nel 1940. Ezov, ricordiamo, non è mai stato menzionato nel ‘rapporto Kruscev’.

Non solo, ma i nuovi dati emersi, avversati da molti ma mai confutati da alcuno, fanno ritenere che almeno in una gran parte dei processi famigerati, certo non nelle fucilazioni di massa di Ezov, venissero condannati imputati che avevano davvero cospirato contro l’URSS a vario titolo, spesso nel tentativo di rovesciare gli equilibri interni al PCUS e altre volte nel disegno cospirativo al soldo di potenze straniere.

Non vogliamo dilungarci oltre perché da un lato ognuno, volendo, può approfondire a piacimento e dall’altro perché già questi pochi dati citati ci sembrano utili a rivedere una buona parte di assunti su cui abbiamo operato sinora.

Se, per ipotesi, la demonizzazione della fisionomia politica dell’URSS risultasse priva dei principali elementi di fondatezza diventerebbe naturale chiedersi, a quel punto, se invece la mai interrotta Guerra Fredda non sarà destinata, piuttosto, a perdere la sostanza ideologica su cui si è condotta per settant’anni per dimostrarsi un evento, questo sì, che ha danneggiato e danneggia lo sviluppo politico e sociale dell’Europa intera. Come si comprenderà non è in gioco l’assoluzione postuma dell’Unione Sovietica rispetto alle inadeguatezze strutturali che l’hanno portata all’implosione. È in gioco la possibilità di sottrarre quegli eventi alla perniciosa semplificazione implicita nelle demonizzazioni caricaturali in voga per restituirci la capacità di capire e ragionare del presente e del futuro.

Ci preme affrontare la questione anche per la valenza che può e, diremmo, deve assumere sul versante ‘interno’ al dibattito tra comunisti, particolarmente riguardo al metodo assunto nella dialettica politica.

Da Trotzki a Kruscev sino ad oggi un metodo abituale su cui impostare la dialettica interna è consistito nel produrre il maggior danno all’avversario in una lotta senza quartiere che non escludeva qualsiasi costo umano e politico. Al punto che quasi l’intero patrimonio di storiografia anticomunista si sostiene sulle documentazioni prodotte dai comunisti, documentazioni che, per di più, si stanno dimostrando oggi degli artefatti per le loro parti fondamentali. Al punto che la convergenza tra gli intenti dei più agguerriti avversari di classe e le argomentazioni della polemica interna sono praticamente sovrapponibili arrivando ad intaccare insieme e inevitabilmente le basi stesse della cultura politica che si riconosce nella Rivoluzione d’ottobre.

A quasi trent’anni dalla caduta del Muro è necessario e possibile, ormai, rileggere e distinguere. Distinguere tra un Trotzki sovietico e un Trotzki in esilio con tutto il bagaglio di ‘realistiche’ complicità con Germania, Giappone ed Italia fascista prima e con gli USA poi, in esclusiva visione anti URSS. Distinguere tra Kruscev e Andropov, tra Honecker e Gorbačëv, tra Berlinguer e Occhetto, perfino tra le prime BR e le ultime esclusivamente ossessionate dal dover danneggiare il disegno del PCI ed il PCI stesso. Distinguere, in buona sintesi, tra le posizioni che promuovono una dialettica interna e tra quelle che la distruggono e, facendo totalmente nostra la vecchia psicosi, che dispiegano così tutto il loro potenziale di intelligenza col nemico di classe che solo a quello mira. Senza in alcun modo dimenticare che, nella pratica quotidiana, la faglia così prodotta ha indotto ovunque comportamenti militanti incompatibili col dettato ideologico di una solidarietà di classe.

Perché la convergenza di nostri obiettivi con quelli del padronato assume forme diverse, dall’alleanza esplicita, alla connivenza, alla passività perniciosa sino all’esporsi, nell’isolamento, all’infiltrazione fisiologica e, da ultimo, alla disponibilità all’assimilazione culturale e politica. Questo quadro contiene in sé elementi di oggettività e di responsabilità politiche soggettive che dobbiamo porci in condizione di valutare in un’ottica futura.

Il nostro obiettivo non è attivare processi postumi ma riattivare, per parte nostra, quella dialettica che pure è viva altrove nel mondo e senza la quale nessun risultato è dato e senza la quale quelli dati vengono perduti. Riattivarla sulla base delle verità storiche che, per esempio, ci dicono come alla Rivoluzione d’ottobre vada aggiunta la vittoria nella Seconda guerra mondiale ad opera dell’URSS, ad opera dei comunisti. La timidezza con cui facciamo nostro quel risultato gigantesco è, per dirla con Losurdo, ai limiti dell’autofobia, della paura di sé, e non la spieghiamo se non con l’esistenza di quella faglia, di quella frattura che ancora getta, tra di noi, ombre sui protagonisti nostri col risultato di minare la comprensione della verità storica e, con essa, la comprensione delle basi su cui fu costruita la democrazia. Per noi e per gli altri.

Perché esiste un patrimonio sociale e storico di incalcolabile valore che è rappresentato dalla marcia verso il socialismo iniziata cento anni fa. Questo patrimonio, nella sua interezza, non è proprietà di nessuno, è bene collettivo, della collettività mondiale. Il nostro interesse è tutelarlo nel modo migliore e tutelarlo, per quanto possibile, nella verità.

di Lamberto Lombardi, Comitato centrale PCI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *