Le istruttive lezioni di un mondo capovolto

di Bruno Steri, segreteria nazionale PCI

 

1- Viviamo una fase politica che è inedita e per molti versi paradossale. Sono i tempi in cui, in una città come Roma, la cosiddetta «sinistra» raccoglie voti ai Parioli, quartiere simbolo della medio-alta borghesia, mentre le destre fanno il pieno nel quartiere popolare di Tor Bella Monaca. La situazione può apparire talmente confusa – parafrasando un vecchio motivo di Giorgio Gaber, con «la sinistra che fa la destra e la destra che fa la sinistra» – al punto che la manovra economica di un governo «post-ideologico» (di cui è parte influente un uomo chiaramente di destra quale Matteo Salvini) viene giudicata da un autorevole membro della sinistra radicale come Stefano Fassina «una manovra coraggiosa, quella che avrebbe dovuto fare il Partito Democratico». In verità, Fassina ha le sue ragioni e non c’è alcuna confusione: la realtà è certamente complessa, ma le cose hanno il loro perché.  L’attacco contro il governo «giallo-verde» è concentrico, tutti i poteri che contano sono scattati come un sol uomo: dopo le quotidiane reprimende degli esponenti dell’Unione europea, il governo  ha subìto quella di Bankitalia e del Fondo monetario internazionale, con connesso minaccioso monito da parte del cosiddetto spread, vero e proprio termometro degli umori dei mercati. Come comunisti, non siamo e non saremo per nulla teneri nei confronti di questo esecutivo. Ma attenzione, la lezione vale anche per noi: se fossero al governo i comunisti, anch’essi proverebbero infatti a forzare la gabbia delle regole di Bruxelles; e, contro di essi, si scatenerebbe la stessa canea.  Lasciatemi dire che si rimane sbigottiti nel registrare la «responsabile» accondiscendenza con cui le suddette reprimende e i suddetti moniti vengono accolti da esponenti del centro-sinistra. Da quando in qua, a sinistra, si è guardato ai «mercati» e alle «compatibilità» imposte da Bruxelles come se fossero intangibili tavole della legge? E, soprattutto, quali sono e che garanzie di imparzialità danno  i pulpiti da cui proviene l’attacco? Proviamo dunque a ribadire cose che un tempo erano ovvie.

2-Punto primo. «La liberalizzazione finanziaria (…) rappresenta un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato». Queste considerazioni di Noam Chomsky descrivono bene la realtà dei «mercati», i quali viceversa sono quotidianamente presentati come un ideale pulviscolo di acquirenti e venditori che agiscono del tutto liberamente e casualmente. Non è così. Nell’industria della finanza figurano degli oligarchi: sono le sei principali banche americane (Morgan Stanley, Citigroup,  Goldman Sachs, Walter Fargo, J.P.Morgan, Bank of America), le quali – come ben sanno gli addetti ai lavori che operano nel settore finanziario internazionale – hanno un livello di concentrazione di ricchezza e di potere che non ha eguali nella storia del mondo. I sei gruppi bancari sono tanto grandi che quando si muovono fanno muovere i mercati. All’azione dei suddetti giganti va inoltre aggiunta  quella di  una decina di hedge fund, nuovi corsari della finanza globale: gli stessi che giocarono un rilevante ruolo nella corsa al ribasso sul debito sovrano greco. Dunque i cosiddetti mercati hanno un corpo e un’anima; e sono orientati da consistenti concentrazioni di potere. Quanto a gigantismo e a passione per il rischio, anche in Europa non si è scherzato. Le indagini sulle banche europee ripetutamente condotte da Mediobanca («Ricerca & Sviluppo») hanno segnalato che, mediamente, gli attivi delle prime due banche di ciascun paese valgono più dei rispettivi Pil nazionali. Anche in Europa non ci si è risparmiati quanto a gioco d’azzardo (vedi l’accumulo nei bilanci bancari di prodotti derivati) e la crisi non ha mai fermato la roulette finanziaria (né mai qualcuno si è seriamente impegnato per fermarla). I nostri guai sono dunque soltanto una questione di speculazione? No, sono anche una questione di speculazione. La speculazione, lungi dall’essere una malattia da estirpare in un corpo sano, è il brodo di coltura entro cui prospera la ricerca del massimo profitto: capitalismo e speculazione vanno insieme.

3-Punto secondo. I dati Bloomberg ci dicono che i più grandi investitori Usa (fondi, banche ecc) figurano tra gli azionisti delle principali agenzie di rating, le agenzie internazionali di valutazione del credito che classificano l’affidabilità di soggetti privati e pubblici (aziende, Stati ecc). Le tre più grandi al mondo sono private e hanno sede negli Stati Uniti. Standard and Poor’s Corporation è una società privata, posseduta dal gruppo multinazionale McGraw-Hill che è presente sul listino della Borsa valori di New York. Moody’s Corporation è anch’essa una società privata con sede a New York, del cui azionariato fa parte il magnate statunitense Warren Buffett, in posizione di azionista di controllo (secondo la rivista Forbes sarebbe il terzo uomo più ricco del mondo, dopo Bill Gates e Jeff Bezos). In ordine di grandezza, al terzo posto troviamo Fitch Ratings, controllata da Fitch Group, sussidiaria a sua volta controllata al 100% dalla Hearst Corporation, conglomerato mediatico privato statunitense. I voti che queste agenzie assegnano vanno a condizionare le politiche d’investimento di tutti i fondi del mondo. Questo crea, potenzialmente, un evidente conflitto d’interessi: tutti questi investitori sono da un lato grandi azionisti delle società di rating, ma dall’altro sono anche utilizzatori dei giudizi espressi da queste ultime quando essi acquistano obbligazioni sul mercato. Certo, ricordare tutto questo non serve a giustificare automaticamente la manovra del governo Di Maio/Salvini: ma, per favore, una sinistra degna di questo nome dovrebbe rispedire al mittente le lezioncine e le minacce che arrivano da organismi dalla più che dubbia imparzialità di giudizio.

4-La mutazione della cultura politica del Pd, con la sostanziale estinzione del carattere più propriamente socialdemocratico e la sua contaminazione liberista, ha profondamente cambiato i riferimenti tradizionalmente a disposizione sulla scena politica italiana: è un passaggio d’epoca e di ciò occorre prendere atto quando si discute di alleanze. Ed è bene anche riflettere su alcune pericolose conseguenze: si pensi al progressivo logoramento subìto dal termine «sinistra» nella percezione diffusa e, in stretta connessione con ciò, alla sempre più precaria distinguibilità dell’opposizione destra/sinistra. Il Movimento 5 Stelle, con il suo dichiararsi «né di destra né di sinistra» – essendo peraltro la metà dei suoi voti provenienti da sinistra (come ha certificato un’indagine dell’Istituto Cattaneo) – è la concretizzazione, emblematica e dilagata a livello di massa, di tale logoramento; è su questa scia che il patto tra il M5S e la Lega ha sancito l’inaugurazione del primo governo «post-ideologico». Per orientarsi nel vivo di tali inediti scenari, un istruttivo esercizio è la lettura del programma per le presidenziali francesi a suo tempo proposto dalla fascista Marine Le Pen. Accanto a proposte tradizionalmente appartenenti all’armamentario propagandistico xenofobo, in esso si potevano trovare: misure di protezione e rilancio delle aziende nazionali, potenziamento dell’intervento pubblico in economia, divieto di cessione di un’azienda o di un ramo di azienda se beneficiata di aiuti pubblici, abolizione della legge che ha incrementato la flessibilità del mercato del lavoro, pensionamento senza riduzioni a 60 anni per chi ha almeno 40 anni di contributi, conferma delle 35 ore, incremento dei redditi fino a 1500 euro, ritorno al sistema proporzionale. C’è da stupirsi se, riletto oggi, il programma di Jean-Luc Mélenchon, candidato della sinistra di classe francese, non si distingue in molte di queste proposte da quello della Le Pen? D’altra parte, invano cercheremmo una risposta agli interessi dei lavoratori francesi in un programma di centro-sinistra che ribadisse gli orientamenti «lacrime e sangue» di Bruxelles.

Il recente incontro tra Salvini e la signora Lepen ha reso visibile, con tanto di sorridenti presenze televisive, un asse di destra di dimensione europea, che da destra guarda al superamento dell’Ue. Il fatto è che questi sono sì fascisti, ma sono tutt’altro che fessi; anzi mostrano di saper navigare – contrariamente a una sinistra in disarmo – nelle acque limacciose del «tramonto delle ideologie». Avendo capito una cosa importante, una cosa che quel che fu la «sinistra» ha dimenticato: l’appoggio popolare non è un optional, per cui è bene andare incontro a qualcuna delle drammatiche urgenze quotidiane lasciate in triste eredità dai cantori dell’austerità, di destra e di sinistra (lasciando beninteso intatto il modo di produzione capitalistico).

 

5-Il governo Di Maio-Salvini ha seguito tale schema. Per un verso, ha concesso un ruolo trainante al Ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale ha spinto l’acceleratore propagandistico sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, evidenziando gli umori smaccatamente di destra della compagine di governo e smascherando il carattere ondivago («né di destra né di sinistra») del Movimento 5 Stelle. Per altro verso, in tema di lavoro e di protezione sociale, si è assistito a un parziale recupero di visibilità del M5S, il quale ha potuto ascrivere al governo qualche provvidenza sociale, «pannicelli caldi» ma comunque socialmente migliorativi e in controtendenza rispetto alla desertificazione operata dai precedenti governi e dai dettami Ue (reddito di cittadinanza, restrizione della flat tax alle sole partite Iva, superamento della legge Fornero e «quota cento» in tema di pensioni). Si tratta di annunci, da valutare in dettaglio al momento della loro concretizzazione; ciò tuttavia non ha mancato di attirare sul M5S accuse di «statalismo» e di tradimento del mandato elettorale in tema di riduzione delle tasse e benefici a favore delle imprese da parte di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni.

Non c’è dubbio che, per evitare che restino lettera morta le promesse di una politica di espansione della spesa sociale e degli investimenti , non c’è altra strada se non quella di forzare le compatibilità Ue. Il governo «giallo-verde» intende mostrare di volerlo fare, ma in proposito occorre aggiungere un’essenziale considerazione. L’atteggiamento del governo rispetto all’Unione europea va inquadrato all’interno degli orientamenti complessivi di politica internazionale: a cominciare dal rapporto stretto con gli Stati Uniti. Nel merito, non va assolutamente sottovalutata la portata politica della recente visita americana del Presidente del Consiglio: evento che ha fatto registrare un eclatante attestato di stima da parte di un Donald Trump tutt’altro che benevolo nei confronti dell’Europa della signora Merkel; e che certamente ha a che vedere con la decisione italiana (fortemente sponsorizzata dalla Lega) di votare il rinnovo delle sanzioni contro la Russia e il mantenimento di un atteggiamento parimenti ostile nei confronti dell’Iran. Ciò sembrerebbe accreditare l’idea di un’operazione tesa ad avvalersi della fedeltà atlantica e delle contraddizioni inter-atlantiche in funzione anti-Ue. Peraltro, va anche detto che gli iniziali propositi di contrapposizione frontale con Bruxelles hanno lasciato il campo ad atteggiamenti più compatibili con lo statu quo e, in qualche caso, del tutto opposti (vedi le rassicurazioni del Ministro del Tesoro e dello stesso Paolo Savona). La stessa composizione del governo «giallo-verde» – stante l’autorevole mediazione del Capo dello Stato – ha evidentemente dovuto contemplare precise concessioni alla cabina di comando continentale.

6-In questo complicato contesto si dice «Prima gli italiani». In tempi di magra, su tale parola d’ordine è stato costruito un vasto consenso. Tuttavia è lecito prevedere che ciò non basti perché tale consenso sia messo al riparo. Come detto, per mantenere le promesse fatte in merito a ripresa economica e provvidenze sociali, cioè per toccare anche solo di striscio quel «patriottismo laburista» auspicato da Giulio Sapelli, occorre infrangere o attenuare sostanzialmente i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. A tal fine, non pare che la compagine di governo si presenti come una macchina da guerra; anzi, essa è apparsa sin dall’inizio divisa. Si aggiunga a ciò la comparsa all’orizzonte di nubi nerissime: a cominciare dalla fine del Quantitative Easing con cui la Bce guidata da Mario Draghi ha sin qui garantito una tenuta dei conti sul piano degli interessi sul debito, grazie all’acquisto dei titoli italiani. L’aumento del prezzo del petrolio e la guerra commerciale tra Usa e Ue potrebbero aggiungere guaio a guaio. Così, anche rispetto alle esigenze dei soli italiani, le provvidenze assicurate dal governo «giallo-verde» potrebbero sempre di più rivelarsi per quello che effettivamente sono: dei «pannicelli caldi» (con buona pace dello stesso reddito di cittadinanza, peraltro in parte già operante seppure con altro nome). L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione «intelligente», il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini &C e, con ciò, il fallimento del patto politico «post-ideologico». Noi sapremmo dove andare a prendere le risorse necessarie per invertire seccamente la tendenza involutiva in atto ai danni dei soggetti sociali cui ci rivolgiamo. Occorrerebbe un travaso di ricchezza da profitti e rendite verso il grosso delle retribuzioni da lavoro: quelle dirette, quelle indirette (il welfare) e quelle differite (le pensioni). Da attuarsi in primo luogo con una consistente patrimoniale e un’altrettanto profonda riforma in direzione della progressività fiscale (l’opposto della flat tax). «Prima gli sfruttati», appunto. Ma è precisamente ciò che il duo Di Maio/Salvini non può e non intende fare. Su tale nodo non si deve mollare la presa.

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