di Piero Manunta, Segreteria Regionale PCI Sardegna e collaboratore Dipartimento Esteri PCI
L’RWM, come noto, si appresta ad allargare la fabbrica e triplicare la produzione di armamenti pronti per l’esportazione, soprattutto verso paesi per i quali l’UE in più risoluzioni ha chiesto un embargo. L’Arabia Saudita ad oggi risulta uno dei committenti della fabbrica sarda.
La stessa Arabia Saudita risulta tra i principali responsabili dei bombardamenti nello Yemen che hanno creato una crisi umanitaria senza precedenti.
Di pochi giorni fa la notizia che il SUAP del Comune di Iglesias ha autorizzato la costruzione di due nuovi reparti di produzione, che significheranno la triplicazione della produzione di bombe, ovvero da circa 5000-8000 a 15000-20000 ordigni. Incomprensibile decisione all’indomani dei reiterati moniti dell’UE e delle richieste dei comitati e delle associazione di avviare una valutazione di impatto ambientale. L’argomento in realtà è stato trattato come se fosse un’attività produttiva qualunque e non una fabbrica di morte.
La Sardegna che vive una grave crisi di occupazione e di sviluppo, viene ancora usata come terreno militare e di morte, sotto il ricatto di creare occupazione e posti di lavoro in area a profonda depressione come il Sulcis. La “fabbrica della morte” ad oggi rappresenta per centinaia di famiglie una fonte di sostentamento, ma di fatto si gioca sul ricatto della produzione per la sopravivenza, ricatto che porta a produrre armi che uccidono popolazioni e seminano il terrore nel mondo.
Il territorio e il popolo sardo già provato da decenni di servitù militari che ne hanno bloccato lo sviluppo economico e sociale, ancora una volta sono utilizzati come strumenti per l’asservimento alle logiche dell’imperialismo.
L’isola ancora una volta è chiamata a reagire, a dire con forza che le bombe non rappresentano sviluppo e che non è accettabile che i poveri per vivere producano bombe che uccidono altri poveri.
Occorre cercare di sviluppare un nuovo piano industriale che rompa questo ricatto per la sopravivenza, ma anche che dimostri che l’isola al centro del mediterraneo può essere un polo produttivo industriale, sostenibile, dove le finalità industriali siano destinate unicamente a prodotti non bellici.
Negli ultimi dieci anni si sono perse figure di alta specializzazione soprattutto nel campo metalmeccanico industriale tra le migliori al mondo, con la conseguente perdita di un bagaglio tecnico inestimabile. Ad oggi le nuove generazioni nella nostra terra, di fatto strette dalla morsa dei contratti a tempo e a chiamata non sviluppano più queste specializzazioni, creando sia l’effetto di essere carne da macello per la classe imprenditoriale senza scrupoli esistente, sia l’effetto di non riuscire a crescere professionalmente. Il tutto compone in parte il quadro di sottosviluppo tecnologico e industriale che vive la Sardegna.
Nel Settembre 2017 il parlamento europeo ha votato favorevolmente per un embargo (ribadito anche da pochi giorni) riguardante gli armamenti nei confronti dei Sauditi, alcuni paesi hanno già avviato le procedure in maniera autonoma per l’applicazione dello stesso, tra di esse anche la Germania, la quale comunque aggira l’embargo facendo si che le bombe siano prodotte in Italia, dalla RWM proprietà della tedesca Reihnmetall, e quindi vendute dal nostro stesso paese. A questo fa da contorno la risposta alle interrogazioni parlamentari dell’allora ministro Pinotti sul fatto che le bombe sono tedesche e non italiane. Esempio di come nascondere le carte all’opinione pubblica.
Il quadro in realtà delle esportazioni militari italiane è ben più ampio preoccupante , secondo quanto riporta nella relazione “SULLE OPERAZIONI AUTORIZZATE E SVOLTE PER IL CONTROLLO DELL’ESPORTAZIONE, IMPORTAZIONE E TRANSITO DEI MATERIALI DI ARMAMENTO” presentata al senato dall’allora sottosegretario Boschi, dove oltre a sciorinare i dati, vengono esplicitate le autorizzazioni rilasciate alle fabbriche di armamenti in Italia, il nostro paese ha un valore di esportazione di armamenti di circa 10,4 miliardi di euro a fronte di un importazione di circa 380 milioni di euro. Al numero uno nel 2017 delle esportazioni troviamo il Quatar, con oltre 4 miliardi di euro di vendite dall’Italia, anch’esso facente parte della coalizione che sistematicamente bombarda lo Yemen.
Le voci più consistenti riguardano proprio nell’ordine la vendita di Velivoli da guerra, navi da guerra e bombe ad alto potenziale.
Altri dati preoccupanti possiamo trovare nella relazione annuale del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) da dove si ricava facilmente come l’Italia nel 2017 si colloca al dodicesimo posto della classifica mondiale di spese militari in aumento come spesa rispetto al 2016. Salta sicuramente all’occhio il confronto di spesa di con un paese vasto come la Russia che spende 66 miliardi di dollari e l’Italia che ne spende 27,9 una proporzione assurda per un paese che per costituzione ripudia la guerra. Ma ancora di più si rileva che spendiamo attualmente più di un paese come il Brasile che ha circa tre volte e mezzo la nostra popolazione e un territorio circa 28 volte più ampio.
Sempre dalle ricerche SIPRI possiamo trovare dati come quello del Venezuela che dal 2008 ad oggi, nonostante l’accerchiamento dell’imperialismo, riducendo del 75% le spese per armamenti ha trovato risorse da destinare alla popolazione attraverso l’edilizia popolare, la sanità pubblica, l’alfabetizzazione del popolo. Questa è indubbiamente la via da seguire ridurre le spese militari e destinare risorse allo stato sociale per rafforzarlo.
Tornando ai fatti della Sardegna, risultano anche prive di forti contenuti e di sostanza le dichiarazioni (Luglio scorso) del presidente della regione Pigliaru, che in sostanza come riportate dalle testate giornalistiche locali, chiede si che non vengano vendute armi a paesi come l’Arabia Saudita ma chiede anche che la produzione rimanga, perché fonte di sostentamento economico del territorio, ma che vengano destinate alla vendita ai paesi NATO e ai paesi europei.
Per noi comunisti, la Sardegna e l’Italia non possono in alcun modo essere produttori di armi dell’imperialismo.
Occorre ancora alzare la voce per dire “Fuori l’Italia dalla NATO”, “Fuori la NATO dalla Sardegna” e no alle fabbriche della morte, per un piano industriale sostenibile, tecnologicamente di qualità e professionalizzante ma anche che dia lavoro, stabilità e speranza nel futuro al popolo sardo.