Ho scritto queste riflessioni sul film Novecento di B. Bertolucci in occasione del cineforum della scorsa estate, organizzato dai giovani dell’ARCI e dall’AMPI di Ancona, per presentare il film dopo il restauro che l’aveva portato di nuovo nelle sale cinematografiche. A pochi giorni dalla morte del Maestro, mi sembra importante inaugurare il nostro nuovo giornale del sito del Partito, parlando dell’opera, dove c’è un pezzo di storia del nostro paese molto importante, ma sempre più dimenticata e soggetta a tentativi di revisionismo storico. Bernardo Bertolucci ha ricevuto già in vita tutti gli onori ed i riconoscimenti dovuti ad uomo di cultura e d’arte, dal mondo del cinema. E’ stato già detto e scritto moltissimo dai media di tutto il mondo sull’uomo e sul regista, forse chi ha capito di più il Maestro è Vittorio Storaro, che ha detto: “Bernardo Bertolucci ha fatto cinema in forma di poesia”.
Penso che il miglior ricordo sia far conoscere le sue opere al giovane pubblico. (L.B.)
Il Cinema ritrovato tra valore artistico e memoria
di Laura Baldelli
Novecento atto I e atto II
Grazie all’opera della cineteca di Bologna, il grande cinema del passato, viene restaurato e digitalizzato, non è un’operazione nostalgica, c’è il recupero di un bene artistico del patrimonio culturale di un’arte giovane che ha cambiato la percezione visiva dell’umanità, che fin dalla nascita nel 1895, è arte frutto di innovazioni tecnologiche.
Il Cinema italiano, con i suoi Maestri, ha creato una nuova grammatica del testo filmico e diffuso grandi testimonianze storico-sociali e contenuti etici e per noi Italiani è anche e soprattutto, Memoria del nostro paese.
Ma non dimentichiamo, né sottovalutiamo, quel ritrovato piacere della visione per vecchi e speriamo nuovi spettatori, per un cinema che richiede immersione totale e decentrazione dal sé….
Tra le tante pellicole, non poteva mancare Novecento di Bernardo Bertolucci, presentato fuori concorso 40 anni fa al festival di Cannes nel 1976 e riproposto restaurato nel 2017 alla 74esima Mostra Internazionale dell’Arte cinematografica di Venezia, nella sezione Venezia Classici e successivamente nelle sale italiane nella scorsa stagione cinematografica.
Il film, oltre al piacere della visione, offre tantissimi spunti di riflessione storico-artistico-letteraria, conservando un fascino particolare grazie al restauro, ma anche al tocco personale “d’autore” di B. Bertolucci.
La pellicola viene definita come un affresco storico dell’Italia dai primi del ‘900 alla Liberazione, e il termine “affresco” appartiene alla pittura, che il film omaggia subito nei titoli di testa con il celebre ed evocativo “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo; ma ogni forma d’arte è celebrata e il racconto inizia il 27 gennaio del 1901, giorno della morte di Giuseppe Verdi, annunciato dal “giullare” del paese, un paesano soprannominato Rigoletto, mentre contemporaneamente nascono il figlio del padrone e quello illegittimo della famiglia dei mezzadri.
Questo espediente narrativo non poteva mancare nelle terre di Verdi e di Bertolucci, dove si snoda la storia, ma il regista vuole anche sottolineare la la vera identità culturale italiana legata alla tradizione lirica, che in un paese di analfabeti, ha supplito al romanzo popolare. Infatti fino a prima della seconda guerra mondiale, l’opera lirica è stata il contatto più diffuso degli Italiani di ogni classe sociale con l’arte della musica e del racconto, una vera e propria educazione alle emozioni, e nell’ambientazione storica del film non poteva mancare.
Infatti tutto l’impianto narrativo degli eventi della storia d’Italia fino al 25 aprile 1945, viene costruito come un melodramma lirico, attraverso la storia di due bambini, poi due uomini e tre generazioni, contestualizzati nei luoghi della bassa intorno a Guastalla e le riprese in quei luoghi costituiscono anche un documento storico del paesaggio italiano degli anni ‘70, oggi antropizzato e profondamente cambiato.
Le strutture narrative sono semplici, basate sul dualismo degli opposti: il ricco e il povero, il padrone e i lavoratori, i buoni e i cattivi, il mondo rurale e l’edonismo della modernità, l’etica e la dissolutezza, la giustizia e l’ingiustizia, l’oppressione e la ribellione, la dittatura e la Liberazione; così la scelta degli attori, giocata tra i grandi nomi del cinema e la gente del luogo, che partecipò alle riprese, sentendosi parte integrante della storia e del lavoro.
Letterariamente, le immagini e i sentimenti dei personaggi, evocano l’epoca del Decadentismo e del Positivismo, il regista s’ispira al mondo rurale della poesia impressionista di Pascoli, scandita dallo scorrere delle quattro stagioni, si sente anche il mondo di De Amicis, contrapposto all’Estetismo decadente dannunziano del personaggio di A. Sperelli e allo spregiudicato modernismo futurista, segni del decadimento di valori morali.
Sceglie la lingua del popolo, il dialetto, e i nomi dei personaggi come Olmo, Neve, Duro, ci ricordano il Verga dei Malavoglia e non mancano gli omaggi a Ligabue e Van Gogh nel personaggio del bracciante che si taglia l’orecchio davanti al padrone, come segno di sfida; ma è anche forte l’influenza del romanzo corale di Tolstoji, nel gioco delle coppie, nell’antagonismo tra bene e male, Olmo-Anita e Alfredo-Ada, che ricordano il romanzo Anna Karenina.
C’è anche la lezione cinematografica di Visconti nella raffinata ricostruzione storico-culturale, ispirata dalla pittura, opposta al realismo stilistico di Olmi, si evoca invece il melodramma di Verdi, che “inventava dal vero”, ed è fortissima l’influenza della poetica del “romanzo in versi” del padre poeta, Attilio Bertolucci.
Con questi presupposti la sceneggiatura del film è già un’opera letteraria, scritta a 3 mani dal regista con il fratello Giuseppe e l’amico Kim Arcalli.
Il film, quando uscì, nelle versioni atto I e atto II, riscosse un buon successo, ma negli USA non lo vollero….troppe bandiere rosse….
Anche gli intellettuali del PCI furono critici, perché si fermarono ad un approccio storiografico, mentre invece il film ricercava la poesia, il sogno e “inventava dal vero”.
Bertolucci aveva fatto suo il pensiero di Gramsci e Pasolini, identificando le masse, non con i personaggi della finzione narrativa, ma i personaggi stessi erano la Storia, protagonisti della Storia, seguendo anche la lezione di Elsa Morante.
Nel film è forte il pensiero di Gramsci sulla cultura popolare delle classi subalterne, “portatrici di una filosofia spontanea e di una cultura vicino all’etica”, perché tutti i personaggi del popolo hanno una loro saggezza, fatta di solidarietà, coraggio, resilienza. Quella stessa cultura popolare che Pasolini celebrò con la poesia e il cinema, ma poi, da vero profeta, capì il potere del consumismo di corrompere quell’innocenza del popolo. Andò poi a cercarla, illudendosi, nei popoli dei paesi del terzo mondo in Asia e in Africa.
E negli stessi anni delle riprese di Novecento, a poca distanza, Pasolini stava girando il suo ultimo doloroso e disperato film “Il Salò Sade”, un film pieno di morte, senza speranza, sulle aberrazioni dell’anarchia del potere. Dopo la Trilogia della vita, il Salò avrebbe dovuto essere il primo della Trilogia della morte., perchè Pasolini usava l’espressione artistica come atto politico per affermare i valori etici, per denunciare e formare le coscienze.
Bertolucci, voleva invece, con Novecento, ancora celebrare la vittoria popolare della Resistenza e riconfermare la speranza nelle classi lavoratrici, portatrici ancora di valori etici per costruire una società democratica, basata sui diritti. Nel film le donne sono protagoniste rivoluzionarie e coraggiose, in prima linea, anche al posto degli uomini e tutto il film anela speranza per un mondo di giustizia sociale, solidarietà, diritti, uguaglianza.
Infatti nella seconda parte c’è l’enfatico trionfo dei valori del socialismo, simbolicamente rappresentato dal disseppellimento della grande Bandiera Rossa, gelosamente nascosta e custodita dalle donne per il giorno della Liberazione dal Nazifascismo.
I due registi erano molto amici e non persero l’occasione di organizzare delle partite di calcio tra le troup di Novecento e del Salò, ma il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini fu assassinato, un delitto politico, che subì tanti depistaggi, per denigrare la figura di un grande poliedrico intellettuale, e solo oggi la giustizia italiana ha abbandonato la risoluzione del caso come delitto sessuale.
Alla luce della contemporaneità forse aveva visto lungo Pasolini, un vero poeta vate in grado di leggere i simboli.
Del film Novecento, tante sono le scene memorabili e simboliche e soprattutto politiche, forse quella che parla più di cento pagine scritte, è verso il finale dell’atto I, quando nella chiesa gli agrari, terrorizzati e imbestialiti dalla forza, dal coraggio delle lotte contadine e da quel nuovo modello di società che dava i suoi frutti in Unione Sovietica, decidono di finanziare i fascisti con la complice benedizione del clero. Altro che rivoluzione popolare fascista….i fascisti furono sempre i servi dei padroni, come lo sono e lo dimostrano ancora oggi!
Il film, oltre che rappresentare la memoria di un periodo storico, ci ricorda che il Fascismo è una scelta politica, che richiede anche un atto intimo, una corruzione interiore, una perversione morale, come rappresentato dai personaggi di Attila e Regina, che si contrappone ai valori della solidarietà, del lavoro, della giustizia sociale e dei diritti per tutti; e soprattutto non esprime “un’opinione”, come oggi qualche revisionista vuol far credere, e per la nostra Costituzione il fascismo è un crimine.
Il film evidenzia come quella “gente di una volta”, fosse “comunità”, ciò che faceva la forza era la coscienza di classe e soprattutto l’UNITA’ nella lotta.
Oggi le parole “solidarietà, unità, diritti, rispetto, lotta” sono sopraffatte da “individualità, privacy, scelta, competizione, efficienza”, che appartengono al mondo dell’ego, in una società concepita per consumatori, non per cittadini, dove tutto è un supermarket dell’usa e getta. E’ in atto un’indebita appropriazione di lessico e linguaggio: il termine “rispetto” è rubato dal mondo malavitoso, “lotta” è rubato dall’insulso fanatico linguaggio del calcio, così la parola “popolo” è inflazionata da forze politiche reazionarie, addirittura con espressioni come “il mio popolo”, da parte di qualche politico megalomane.
Eppure per molti secoli abbiamo creduto al “potere della parola”, che l’informazione avrebbe potuto cambiare il pensiero e il mondo, ma la mistificazione del linguaggio purtroppo prende il sopravvento e sdogana l’ignoranza.
Le maggior parte delle nuove generazioni, ma anche delle vecchie, sopraffatte da saperi utilitaristici e dalla velocità consumistica, non solo di merci, ma anche di pensieri liquidi, che pregnano la quotidianità, non hanno più strumenti per ascoltare e cogliere opportunità educative offerte dal buon cinema di memoria, vero e proprio cinema di formazione; lo dimostrano anche le vittorie del leaderismo, del qualunquismo della vita politica italiana. Dobbiamo perseverare nel custodire la Memoria per restare umani, agendo la solidarietà, ricordandoci che non si può costruire vera pace senza giustizia sociale, senza rispetto del lavoro e dei lavoratori, e senza diritti agiti, la libertà non vale nulla.