L’esito prevedibile di una manovra senza cambiamento

di Bruno Steri, Segreteria nazionale Pci e Responsabile Economia

 

Già a fine ottobre, con la pubblicazione della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, così commentavamo quella che il governo annunciava come una manovra di “cambiamento”:

«(…) Il governo “giallo-verde” ha annunciato di voler invertire una tendenza sul piano della sensibilità sociale; ma non ha nelle sue corde – nella sua ispirazione di fondo, nel suo impianto ideologico e politico – la capacità di aprire una pagina davvero alternativa alla situazione vigente, più favorevole alle classi popolari in termini di condizione sociale e rapporti di forza. Non sto parlando di prospettive socialiste – cosa del tutto ovvia – ma anche solo di correzione del modello di (sotto)sviluppo imperante. (…) Per siffatte scelte occorrerebbero due decisioni politiche che il governo non vuole o comunque non può fare. In primo luogo, un recupero della propria autonomia in tema di politiche di bilancio, monetarie, fiscali e del lavoro, in sintonia con la fine della sbornia privatizzatrice e il rilancio di un robusto interventismo pubblico: ma ciò significa rotta di collisione con gli orientamenti dell’Unione europea e i vincoli di Maastricht, rimessa in discussione della moneta unica e di questa stessa Unione europea; in secondo luogo, sul piano interno, un travaso di ricchezza da profitti e rendite a salari (diretti, indiretti e differiti) anche attraverso una decisa revisione dei meccanismi di prelievo fiscale, con accentuazione del loro carattere progressivo, e tramite qualche forma di imposta patrimoniale. Questo sarebbe l’unico vero e possibile “cambiamento”» (cfr. Una prima valutazione sul progetto di manovra del governo, in www.ilpci.it)

Oggi dobbiamo dire purtroppo di essere stati profeti fin troppo facili; ed anzi che la realtà ha perfino superato la previsione. Ci vuole infatti una notevole faccia tosta (ma in romanesco l’espressione è assai più mordace) per invocare nazionalizzazioni all’indomani della tragedia del ponte Morandi e, solo due giorni dopo, proporre privatizzazioni nella trattativa con la Commissione europea; o ancora, dichiarare di non voler conteggiare nel computo del bilancio investimenti tesi alla crescita economica e poi non solo rinunciare ad investire ma esser disposti a inaugurare l’ennesima stagione di svendita di beni pubblici. La verità è che, dopo le dichiarazioni altisonanti e la voce grossa del ministro dell’Interno, con l’Unione europea si è risolutamente imboccata la strada dell’accordo al ribasso. Così, per rientrare entro vincoli come sempre dettati da un’impostazione monetarista e antipopolare (obiettivo deficit/Pil ricondotto dal proclamato 2,4% al più risicato 2,04% indicato da Bruxelles), sono state ulteriormente falcidiate le già scarse risorse disponibili a discapito dei servizi essenziali: complessivamente, cinque miliardi di tagli a quanto previsto per la sanità, per scuola e ricerca, per l’edilizia scolastica (nonostante il dato drammatico secondo cui una scuola su quattro non sia in linea con le norme di sicurezza), per interventi di sviluppo territoriale, di manutenzione e recupero ambientale, per trasferimenti agli enti locali, per il sostegno selettivo a imprese che assumano a tempo indeterminato.

A ciò vanno aggiunti altri quattro miliardi e mezzo sottratti all’attuazione dei due cavalli di battaglia del governo – la cosiddetta “quota 100” per andare in pensione e il reddito di cittadinanza – con inevitabile ridimensionamento delle provvidenze e sostanziale diminuzione del numero di coloro che ne possono usufruire. In relazione al primo provvedimento, esso infatti potrà avere applicazione limitatamente ai prossimi tre anni tenendo fermo il combinato disposto di un minimo obbligatorio di 38 anni di anzianità lavorativa (da sommare all’età) e di una forte penalizzazione dell’assegno pensionistico (che cresce all’aumentare dell’anticipazione del pensionamento). Per quanti non riuscissero ad accedere o pensassero di rinunciare a tale “opportunità” (si prevede una gran parte dei lavoratori) resterebbe l’applicazione della legge Fornero. Se a tale misura si aggiunge l’indicizzazione progressiva dei trattamenti pensionistici dai 1500 euro lordi in su, il quadro che il governo compone per la previdenza è tutt’altro che entusiasmante. Per quel che riguarda il reddito di cittadinanza, caro ai Cinquestelle, non siamo in presenza di qualcosa di sostanzialmente diverso dal già vigente reddito di inclusione (con relativi vincoli e paletti). Se poi si guarda alle cifre, la nebbia non si dirada, anzi: è del tutto evidente che le risorse rimaste potrebbero coprire una minima parte dei 6 milioni di poveri certificati dall’Istat. In compenso, un insperato vantaggio avrebbero le imprese, cui verrebbe graziosamente destinato il reddito medesimo in caso di assunzione del beneficiario.

Ma l’aspetto più preoccupante della manovra concerne ciò che ci attende dopo il 2019. Il totale riconoscimento della primazia di Bruxelles e del suo potere di controllo sui conti pubblici nazionali ha indotto il “governo del cambiamento” a prevedere pesanti dispositivi di salvaguardia degli obiettivi di bilancio. In primo luogo, sono stati “salvati” un paio di miliardi, sottraendoli temporaneamente alle esigenze di spesa pubblica, con la prospettiva di un loro ritorno alla disponibilità in caso di raggiungimento dei suddetti obiettivi (quelli appunto indicati e supervisionati dall’Ue). Ma soprattutto, anziché esser ridotte, vengono praticamente raddoppiate le cosiddette clausole di salvaguardia, norme che il governo italiano si impegna a far scattare in caso di sforamento dei vincoli di spesa e che si traducono in aumenti dell’aliquota Iva  e delle accise sul carburante. Nel merito, si tratta di una spada di Damocle di 23 miliardi per il 2020 e di 29 miliardi per il 2021 e il 2022: se non si trovassero tali miliardi con tagli corrispondenti nella finanziaria del 2019, l’aliquota ordinaria dell’Iva (la più odiosa delle tasse perché spalmata su tutti i contribuenti, poveri e ricchi) passerebbe automaticamente dal 22 al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021. Con le previsioni di crescita del Pil decurtate da un ottimistico 1,5% ad un più realistico 1% e con i venti di crisi che tornano a farsi minacciosi, c’è ben poco da stare allegri. Dal canto suo, Matteo Salvini si affretta a sostenere che “siamo solo all’inizio”, che l’opera dovrà essere completata ad esempio con l’attivazione della Flat tax, nella sua versione allargata: cioè a beneficio non solamente di piccoli artigiani ma anche di chi si colloca alla sommità della scala dei redditi, fino a grandi capitalisti e rentiers.

Per carità di patria sorvoliamo sul resto dell’attività e delle misure attuate dall’attuale governo italiano. In questa sede interessa soprattutto sottolineare che, come si evince da quel che si è detto sin qui, la valutazione sull’operato di quest’ultimo è strettamente connessa con il giudizio sull’Unione europea e il che fare rispetto ad essa. E’ precisamente su tale prioritaria questione che il governo Conte/Salvini/Di Maio, anche sui temi economico-sociali mostra il suo carattere conservatore e reazionario, la sua strutturale incapacità di operare in direzione degli interessi popolari. Contestualmente, ciò significa che solo chi esprima un giudizio netto sull’irriformabilità dell’Unione europea può aver titolo ad accreditarsi come opposizione credibile al patto “giallo-verde”. Ciò è stato chiaro sin dall’inizio al ricostituito Pci, il quale ha posto il tema Europa come politicamente dirimente, accanto ai temi Nato e imperialismo Usa. In Europa non siamo i soli a pensarla in questo modo. Ad esempio, quando ancora la trattativa tra il nostro esecutivo e la Commissione europea muoveva i suoi primi passi, il compagno Miguel Viegas, parlamentare europeo e autorevole esponente del Partito Comunista Portoghese, in un fondo dedicato alla situazione italiana mostrava di avere comunque le idee assai chiare sul rapporto con l’Unione europea:

Qualunque sia il giudizio di merito che possiamo esprimere sul governo italiano e sulle sue politiche, ciò che la Commissione europea intende fare nella pratica è annullare ogni deviazione, non importa quanto piccola, dai suoi orientamenti neoliberali. (…) Questo è stato il caso della Grecia e del Portogallo. Vedremo se così sarà anche per l’Italia. Una cosa è certa: con questo episodio emerge ancora più chiaramente la necessità per il Portogallo di liberarsi dai vincoli dell’Unione europea e in particolare dell’euro” (cfr. Il “problema italiano”, in www.marx21.it).

Anche nel nostro Paese, si sono levate voci che esprimono una posizione analoga a quella qui menzionata. E’ il caso della Rete dei Comunisti, sul cui giornale on line ‘Contropiano’  compaiono nel merito articoli di fondo e analisi condivisibili (cfr. ad esempio Dante Barontini, Sovranisti da strapazzo, populisti di palazzo. Su pensioni e non solo, in www.contropiano.it). Ed è il caso della Redazione della rivista on line ‘La Città Futura’ che, con un occhio alle imminenti elezioni europee, lancia un Appello dal significato politico inequivoco (cfr. Appello a tutte le forze che ritengono irriformabile il polo imperialista europeo, in www.lacittafutura.it). Così come non manca di farsi sentire dall’interno del Prc la voce di chi non condivide la prospettiva di un’ennesima coalizione elettorale dai contenuti politici tutt’altro che univoci e trainata dall’ennesimo uomo della provvidenza (cfr. Domenico Moro e Fabio Nobile, Una coalizione a perdere per ‘la patria europea’? No grazie, abbiamo già dato). Si tratta di presenze circoscritte e tuttavia importanti nel contesto di una sinistra di alternativa frammentata e a tutt’oggi in cerca di autore. Dal canto suo il Pci fa bene a porre in cima alla sua agenda la costruzione di un Partito Comunista degno di tale nome, senza che si sia presi dall’ansia della prossima scadenza elettorale, come troppe volte è successo in questi anni. Con ciò, l’interlocuzione con chi è politicamente più vicino resta un compito importante e da assolvere.

 

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