di Mauro Alboresi, Segretario nazionale PCI
Come noto, gran parte del consenso elettorale della Lega e del Movimento 5 Stelle alle ultime elezioni politiche è derivato dalla promessa dell’una e dell’altro di abolire la cosiddetta Legge Fornero in materia previdenziale.
L’accordo successivamente intervenuto tra queste due forze politiche, attraverso il quale si è giunti all’affermazione del Governo Conte, ha evidenziato un primo rilevante scarto tra quanto promesso e quanto deciso in merito.
Ciò che è stato concordato, infatti, è la cosiddetta quota 100, ossia un mix tra età anagrafica e contributi previdenziali versati.
Una quota inizialmente presentata come mobile, in quanto i coefficienti potevano variare, ma che si è presto rivelata essere una quota fissa, poiché l’interessato non può prescindere dal vincolo dei 62 anni di età e dai 38 anni di contributi.
Tutto ciò è stato sancito, con un metodo assai poco rispettoso delle prerogative parlamentari, attraverso la approvazione della recente legge di bilancio.
Con essa, infatti, sono stati stanziati i fondi per quota 100 : 4,7 miliardi di euro nel 2019, 8 nel 2020, 7 nel 2021, rimandando ad un successivo decreto la disciplina della materia.
Tante sono le ipotesi che si rincorrono circa l’insieme dei contenuti di tale decreto, annunciato e rinviato più volte, che dovrebbe sortire i propri effetti dal prossimo primo Aprile.
Tra queste la possibilità per i lavoratori privati di andare in pensione da tale data se in possesso dei requisiti minimi previsti entro il 31 Dicembre 2018.
Per coloro che li raggiungeranno successivamente sarà possibile andare in pensione 3 mesi più tardi, prospettandosi una “finestra”trimestrale mobile.
I dipendenti pubblici, invece, dovranno attendere la fine del primo trimestre 2019 per maturare i requisiti, e potranno utilizzare “finestre” semestrali.
Usufruire di quota 100 comporta per tutti l’impossibilità di esercitare un lavoro dipendente od autonomo, non occasionale e superiore ai 5000 euro, fino al raggiungimento dell’età pensionabile di 67 anni.
La platea potenziale interessata a ciò nel 2019 è di circa 190000 dipendenti nel privato e di circa 160000 nel pubblico.
Le stime del governo ad oggi indicano nel’85% il possibile livello di adesione, una percentuale strettamente correlata alla “convenienza” dei potenziali interessati.
Per molti, infatti, l’andare in pensione con quota 100 comporta, a causa dell’incidenza del sistema contributivo per il calcolo dell’importo della pensione, una riduzione consistente del reddito atteso e risulta quindi più opportuno aspettare le scadenze previste dalla vigente Legge Fornero.
E’ certo che all’uscita dei potenziali aventi diritto dal mondo del lavoro corrisponderà solo in minima parte la loro sostituzione, e di ciò fanno fede le dichiarazioni di intenti e le scelte dei diversi operatori economici, nonché dello stesso Governo.
Ciò vale per il privato e per il pubblico, quest’ultimo peraltro impossibilitato, a seguito della legge di bilancio da poco approvata, di operare assunzioni sino al prossimo mese di Novembre.
Altro che il “ per uno che esce uno entra”a lungo propagandato dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle quale risposta al drammatico problema occupazionale vigente, in particolare delle nuove generazioni!
Tra le tante considerazioni che è possibile fare relativamente a quota 100 la più evidente è che non si tratta dell’abolizione della Legge Fornero, bensì di una possibile deroga alla stessa, che resta in campo, per coloro che possiedono determinati requisiti.
Una misura importante, utile per tanti, soprattutto per coloro che vivono pesanti condizioni lavorative, ma non certo quella sorta di rivoluzione in materia pensionistica a suo tempo prospettata.
Una misura che si somma ad altre, configurando un insieme di vie d’uscita dal lavoro, nel 2019, per circa 500000 addetti privati e pubblici.
Tra queste la proroga per un anno della cosiddetta Opzione Donna, ossia la possibilità di uscire anticipatamente dal lavoro, con una pensione ricalcolata con il metodo contributivo, per le donne aventi almeno 58 anni di età se lavoratrici dipendenti, 59 se autonome, e 35 anni di contributi.
Ad esse non si applica l’adeguamento dell’età in rapporto all’aumento della speranza di vita, e quindi potranno lasciare il lavoro applicando una “finestra mobile” rispettivamente di 12 e 18 mesi.
Tra le ipotesi in campo vi è anche la conferma dell’Ape Social e Volontario, ossia una sorta di pre- pensione assistenziale, che si può ottenere al compimento dei 63 anni.
Essa può essere richiesta da disoccupati, da chi presta assistenza a familiari disabili, da persone aventi una invalidità minima del 74%, da chi svolge lavori gravosi ( operai edili, autisti di gru, conciatori, macchinisti, autisti di mezzi pesanti, infermieri ed ostetriche, badanti, maestre d’asilo, facchini, addetti ai sevizi di pulizia, operatori ecologici).
A tale articolata casistica di aventi diritto sono stati aggiunti gli operai della siderurgia e del vetro, gli operai agricoli, i marittimi, i pescatori.
Per potere accedere all’anticipo gratuito occorre essere in possesso di 30 anni di contributi, che diventano 36 per chi è impegnato in lavori gravosi.
Per le donne è prevista l’Ape Rosa, che stabilisce un anno di sconto per il primo figlio ed un ulteriore anno per il secondo.
La medesima soglia di età è valida per coloro che intendono accedere alla cosiddetta Ape Volontaria, che si basa su un prestito rimborsabile in 20 anni attraverso trattenute sulla pensione.
Tra le diverse possibilità per giungere alla pensione figura anche la fattispecie dei cosiddetti lavoratori precoci, la cui platea di riferimento è stimata in circa 75000 unità, che possono accedervi in base alla quota contributiva 41, che dal 2019 è divenuta di 41 anni e 5 mesi, a prescindere dall’età anagrafica, purché prima dei 19 anni abbiano lavorato per almeno 12 mesi.
I soggetti che possono usufruirne sono gli stessi indicati relativamente all’Ape Social e Volontaria.
Alle diverse possibilità indicate si aggiunge quanto relativo ai cosiddetti lavori gravosi, una fattispecie contemplata nella legge di bilancio del governo precedente.
Per coloro che svolgono tali attività è possibile accedere alla pensione, mediante la procedura in essa indicata, con 66 anni e 7 mesi di età, oppure 42 anni e 10 mesi per le donne, 42 anni e 10 mesi per gli uomini.
Per tale platea non scatta il blocco dell’adeguamento alla speranza di vita previsto dal primo Gennaio 2019.
Altra possibilità in campo, anch’essa prevista dal governo precedente, è quella relativa ai cosiddetti mestieri usuranti, un insieme di attività considerate più pesanti di quelle gravose.
Per coloro che li hanno svolti, per un tempo pari alla metà della vita lavorativa o a 7 anni negli ultimi 10, è possibile andare in pensione con 61 anni e 7 mesi di età e 35 anni di contributi.
Per tale platea non scatta, sino al 2026, l’adeguamento all’aspettativa di vita previsto dal Gennaio del corrente anno.
Gli interessati a tale misura sono stimati in circa 6000 all’anno.
Anche la fattispecie della pensione anticipata, già prevista dall’ordinamento vigente, risulta confermata.
La Legge Fornero prevede al riguardo che vengano aumentati di 5 mesi i requisiti fissati, portandoli a 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi per le donne.
L’intento dichiarato in merito dall’attuale governo è quello di intervenire bloccando tale incremento ed inserendo una “finestra” trimestrale, comportando in tal modo uno sconto di 2 mesi. La platea interessata ammonta a circa 60000 unità.
In ultimo si pone la questione della pensione di vecchiaia.
Dal primo Gennaio 2019 è possibile accedervi al compimento dei 67 anni di età, ossia 5 mesi in più rispetto all’anno precedente.
Si tratta di un limite valevole per i dipendenti privati e pubblici, per gli uomini e le donne.
Per tale prestazione, erogata a domanda in favore degli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, servono anche 20 anni di contributi.
La platea dei possibili beneficiari per l’anno in corso è stimata in circa 90000 unità.
In conclusione siamo di fronte ad una assai articolata casistica in merito alla possibilità di accedere alla pensione, ad otto opzioni per una platea potenziale complessiva stimata per il 2019 in circa 500000 unità.
Si può quindi affermare che allo stato si è ben lontani dall’abolizione della Legge Fornero, evidenziando che la questione previdenziale è questione assai più complessa e problematica di quanto la propaganda della Lega e del Movimento 5 Stelle hanno cercato di far credere.
Di certo, tra le misure adottate dall’attuale governo, vi è la riduzione della rivalutazione delle pensioni superiori ai 1550 euro lordi mensili che sarebbe dovuta scattare dal primo Gennaio 2019.
Una scelta sbagliata, penalizzante per tanti, resa ancora più marcata da un tasso di inflazione attestato al’1,5% e dai pesanti rincari intervenuti su prezzi e tariffe di beni e servizi di prima necessità.
Una misura che colpisce un’area vastissima di pensionati, che giustamente si sono mobilitati attraverso le loro organizzazioni, un insieme il cui atteggiamento il Presidente del Consiglio Conte ha assimilato, evidenziando il proprio distacco da esso, a quello dell’avaro di Moliere.
Una scelta che il governo cerca di nascondere ponendo l’accento sull’intervento effettuato nei confronti delle cosiddette pensioni d’oro, che registreranno un taglio dal 15% al 40% per gli assegni, davvero pochi, superiori ai 500000 euro.
Di certo, ancora, vi è la scelta della flat tax al 7% per i pensionati, stranieri ed italiani, che decidono di risiedere al sud.
Una misura che finisce con l’alimentare la disparità di trattamento tra la stessa platea di interessati, tra le diverse aree del Paese, e che ancora una volta punta a sviare l’attenzione dagli interventi che necessitano per il Mezzogiorno, dei quali nella politica governativa non vi è traccia.
Il quadro qui riportato in merito alla “vicenda pensioni” dice del poco che il Governo Conte si accinge a fare, del tanto che serve per rimettere la previdenza al centro di una moderna concezione di Stato Sociale, fuori dalle logiche liberiste imperanti, che l’attuale governo, come quelli che l’hanno recentemente preceduto, non intende mettere in discussione, come dimostrato dalla conclusione del rapporto tra lo stesso e l’Unione Europea nella fase della definizione della legge di bilancio. L’alternativa, possibile oltre che necessaria, non passa quindi attraverso l’attuale maggioranza, le sue politiche.
Ciò che serve è ben altro ed il PCI rinvia alle proposte definite nel proprio documento programmatico “Più Stato e meno Mercato”.