Il Covid-19 – l’Impertinenza dell’RWM

di Davide Meloni, Segretario Regionale PCI Sardegna e Dipartimento Esteri PCI

La drammaticità apportata dalla circostanza dovuta al coronavirus, COVID-19, riscontrata in tutta la sua virulenza e pericolosità ormai a livello globale, ostenta una (sotto) valutazione in alcune realtà strategiche(1?) di evidenza economica, evidentemente ritenute più importanti nel pieno dettato capitalista, della salute delle persone, sottolineo delle persone, in quanto ad essere coinvolti non sono solo i cittadini e i lavoratori della regione, ma anche i cittadini e i lavoratori, intere famiglie, padri, madri, figli, parenti, amici di una nazione a cui viene ignobilmente riversato il prodotto bellico, sotto forma di strumenti letali, che fuoriesce per una giusta (sich!) causa di buste paghe, atte a sfamare lavoratori e famiglie di in piccolo territorio a danno di una intera popolazione che in molti conoscono solo per sentito dire, lo Yemen, palcoscenico di una tragedia ai più sconosciuta.

Si, avete capito bene, mentre ci si confronta, ci scontra, per capire quali siano i lavori, quindi i posti di lavoro ritenuti funzionali e necessari da tenere aperti, nel rispetto della sicurezza per lavoratori e cittadini, la fabbrica di morte, meglio conosciuta come RWM, non si capisce, o forse si, quali siano i fini reconditi necessari, perché non solo continui a produrre le bombe per gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, i quali continuano indisturbati e sostenuti dagli Stati Uniti, a decimare la popolazione Yemenita, ma addirittura proseguono imperterriti nei lavori di ampliamento della fabbrica di morte, con il bene placido delle istituzioni locali e della Regione, non sottacendo il ruolo di responsabilità che dovrebbe essere svolto dal Governo nazionale

Al centro delle contraddizioni spicca l’annuncio del Governo italiano della sospensione per 18 mesi, dall’11 luglio 2019, della fabbricazione ed esportazione delle bombe d’aereo, a favore dei paesi arabi prima citati, fatto da Di Maio via Facebook (non risultano altri atti ufficiali in merito), la quale sospensione però, non impedisce la produzione di proiettili da artiglieria.

L’azienda RWM, tra una domanda e l’altra di espansione, spudoratamente butta sul tavolo una ventilata crisi, con annunci di esuberi e necessaria ristrutturazione con relativi licenziamenti, che occorrono solo come scopo di ulteriore elemento di ricatto, dato che contestualmente amplia addirittura il mercato di esportazione, con l’ottenimento di  commesse dall’esercito francese del del Regno Unito.

In questo gioco di apparente confusione, la cosa più chiara in questa vicenda, che si tenta in tutti i modi di minimizzare anche  dal punto di vista della corretta informazione, è il chiaro ampio margine di profitto che incassa l’azienda, parte del quale messo a disposizione per gli ampliamenti, altro che chiusura dello stabilimento per crisi di mercato.  

Ora questo filo (il)logico, apparentemente e drammaticamente condiviso dalle istituzioni locali di riferimento, Comuni di Iglesias, Domusnovas e Musei, ma anche dal Governo Regionale e Nazionale, presenta diverse criticità e ambiguità.

Per certi versi contiene illegittimità evidenti, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista sostanziale. Alcuni, sono stati evidenziati antecedentemente, e cioè: mentre la nostra Costituzione prevede in maniera chiara e inequivocabile il rispetto dei diritti umani, il ripudio a qualsiasi guerra, si permette la fabbricazione di strumenti bellici, nonostante tutti sappiano come vengono utilizzati, da chi e perché, in barba a qualsiasi impedimento legislativo in vigore, Piano Paesaggistico Ambientale in primis, sicurezza dei lavoratori, dell’ambiente e dei cittadini a seguire, non certo di secondaria importanza.

Basti pensare che lo stabilimento è ubicato a ridosso del Sito di Interesse Ambientale Comunitario, MonteLinas-Marganai. Quindi in una posizione tale da rendere obbligatoria la Valutazione di Incidenza, che rispetto al procedimento effettuato nel 2012 rivolta alla produzione civile, nel frattempo modificato a produzione bellica, si rileva la mancata funzione di controllo, per il maneggio di  sostanze tossiche, chimiche e per la produzione di esplosivi, nel rispetto della normativa che richiama gli aspetti per i rischi di incidente di rilievo, in considerazione altresì delle continue richieste, come già evidenziato, di ampliamento, che ne motivano l’attivazione preventiva del procedimento stesso, ad oggi completamente disatteso.

Bene hanno fatto i compagni del Sulcis Iglesiente, a partecipare come Partito in prima persona, assieme ad altre Associazioni e movimenti, come Italia Nostra Sardegna e Comitato  Riconversione RWM, per citarne alcuni, contro l’ampliamento per triplicare le attività produttive della fabbrica, che individuava una vasta area per le prove e la sperimentazione degli esplosivi, definendo gli ambiti di iniziativa in un documento dell’assemblea cittadina del 28.12.2018, e dell’Assemblea cittadina del 29 novembre 2019, cofirmatari del documento assieme ai compagni della Federazione di Cagliari, ad altre associazioni e movimenti.

L’ambiguità con cui si muove la multinazionale e pari alla complicità delle istituzioni locali e regionali. Basti pensare che con le prime avvisaglie di contestazione organizzate contro la produzione delle bombe e le insistenti richieste di ampliamento, la società aziendale ha risposto immediatamente con la minaccia di chiusura, con licenziamenti  collettivi, giustificabili con fantomatiche crisi di mercato, per poi scoprire alcuni altri aspetti, in parte già descritti, che vale la pena mettere in evidenza.

Cominciamo dai lavoratori che si identificano con rispettive buste paga; sono due i siti di produzione in Italia dell’RWM, Ghedi Direzione Amministrativa nel bresciano e Domusnovas Sulcis Iglesiente.

Si rileva dai bilanci conosciuti per l’anno 2018, che la stragrande maggioranza degli occupati con funzioni impiegatizie risultano nella sede di Ghedi, mentre il folto della manovalanza risulta essere nello stabilimento Sardo.

In Sardegna, su 281 dipendenti, ben 190 sono precari, con funzioni di livello più dequalificato. Sembra del tutto evidente la strategia dell’azienda, massima precarietà, chiamata anche flessibilità, meno forza e incidenza contrattuale.

Oltre al fatto che in caso di mobilità e licenziamento, essendo in gran parte assunti con contratti a somministrazione, non rientrerebbero nella Cassa Integrazione, ma solo nella indennità di disoccupazione.

Una precarietà che sancisce la debolezza e il ricatto permanente nei confronti dei lavoratori, costretti ad accettare le prepotenze di un’azienda che fa il bello e il cattivo tempo, con la complicità, no mi stanco di ripetere, delle istituzioni sia locali, sia regionali e nazionali.

Ora è facile capire quanto sia politicamente difficile, da un lato sostenere la chiusura di una fabbrica di morte, senza se e senza ma, dall’altra convincere lavoratori, famiglie e cittadini del territorio, che la lotta per una riconversione produttiva, con un impatto ambientale sostenibile, può essere condizione di salvaguardia dello strumento economico che è dato dal lavoro dignitoso e stabile, non precario e da un giusto ed equo salario.

Le condizioni si complicano ulteriormente se si tiene conto di un territorio devastato economicamente, con un tasso di disoccupazione altissimo, che paga lo scotto di politiche poco lungimiranti, territoriali e regionali, che hanno determinato la chiusura senza valide riconversioni produttive delle miniere di carbone e loro indotto.

Un territorio che paga duramente l’incapacità politica di gestire l’apparato produttivo della zona di Portovesme, con le ferite ancora aperte dell’ALCOA e i danni ambientali enormi dei “fanghi rossi”, ancora li a denunciare un disastro annunciato e la devastazione di un territorio, per il quale non si prevede un futuro migliore nell’immediato.

Difficile e pesante il condizionamento subito dai lavoratori, dalle loro famiglie. Verrebbe facile individuare le loro “egoistiche” responsabilità, in merito alla contrattazione aziendale di II livello, ma a me piace mettere in evidenza gli aspetti ben più gravi della responsabilità politica che li ha portati a questo punto.

Ed è quindi la politica che deve avere la capacità di toglierli fuori dal pantano. Ridargli una speranza solida per un futuro davvero migliore.  Ecco che allora la politica è chiamata ad un esame profondo, articolato, capace di produrre alternative credibili e immediate.

Capace di superare il capitalismo becero e fallimentare, ridando dignità al lavoro e ai lavoratori. Ricostruendo con pazienza  e buon senso una società solidale, che rimetta il lavoro, il servizio pubblico al primo posto dell’agenda politica (più Stato meno mercato). Sconfiggere quella cultura basata da troppo tempo nell’interesse individuale, che annichilisce diritti, ambiente, stato sociale, cooperazione.

Una politica atta a far capire che quel territorio non si risolleva con la fabbricazione di strumenti di morte per popoli che sembrano così lontani, lo sterminio di  persone di altre nazioni, non hanno un valore diverso dalle morti a noi attigue.

In questo periodo di emergenza pandemico è possibile fare un’analisi complessiva dei bisogni territorio per territorio, evidenziando con chiarezza le necessità, con prospettive di attuazione concrete.

La lotta per la salvaguardia dei diritti umani ha valore universale, non si può intendere parziale o a seconda della considerazione personale. Tutelare la vita altrui significa tutelare anche la propria.

Andiamo decisi verso la chiusura di quella fabbrica, ma con in mano un progetto alternativo di sviluppo economico condiviso e compatibile con il territorio.

Con tutta la buona volontà e l’impegno anche legale, personalmente dubito che il TAR possa far chiudere la fabbrica RWM. Anche con sentenze favorevoli alle istanze sociali, che costringano le amministrazioni responsabili a rivedere il loro atteggiamento superficiale e connivente; penso invece, ne sono convinto, che una continua, forte, convinta, pressante e tenace lotta politica, possa riuscirci, se  si è capaci di coinvolgere e rendere partecipi le persone nel territorio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *