L’Occidente chieda scusa alla Cina! Di statue, razzismo e orrori coloniali

di Emiliano Alessandroni

Riprendiamo da MarxismoOggi un articolo del Compagno Alessandroni.

  1. Abbattimento delle statue e memoria storica

«Stiamo assistendo a una impietosa campagna per cancellare la storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri figli», ha tuonato il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump dal palco di Mount Rushmore, inaugurando il 4 luglio i festeggiamenti dell’Indipendence Day. Ha quindi proseguito condannando duramente il vandalismo di «una folla arrabbiata», ovvero del «fascismo dell’ultra sinistra» accusato di distruggere i bastioni della cultura occidentale.

Certo, il Presidente in questione non trova proprio un attestato di stima presso le anime progressiste del mondo europeo, eppure il suo discorso, prima ancora che venisse pronunciato, aveva già trovato sponda, nel nostro continente come negli Usa, presso i lidi di una certa sinistra: sia di quella radical chic, intellettualistica e moralista, che di quella sedicente “sovranista”, suscettibile di introiettare le nuove forme ideologiche e le nuove categorie delle destre in ascesa. Entrambe sono schizzate in piedi alla vista delle statue distrutte o imbrattate, e hanno avvertito l’ondata di antirazzismo che si stava sollevando come una minaccia alla stessa identità occidentale.

Nient’altro che «una barbarie scomposta» l’ha definita Luca Telese, a In Onda il 07-07-2020. Una «furia iconoclasta» l’ha rubricata il servizio di Mariagrazia Gerina.

È toccato, ahinoi, non già ad un politico, ma allo storico dell’arte Tomaso Montanari, riportare un po’ di ordine mentale: è di fondamentale importanza, a suo avviso, distinguere in primo luogo i monumenti dell’antichità, del Medio Evo e dell’Età Moderna, da quelli dell’Ottocento e del Novecento, ovvero di un’età a cui tutti noi per molti versi apparteniamo. La statua di Montanelli, il quale ancora negli anni ’60 riteneva “biologicamente inaccettabile” il meticciato tra bianchi e neri, egli ricorda, è del 2006 e pertanto non hanno alcun senso i parallelismi con il Colosseo o con la Colonna Traiana. La statua di Colombo – il quale, detto per inciso, nell’Isola Hispaniola di cui divenne governatore, fu responsabile della morte di circa 3.000.000 di nativi – la statua di Colombo, si diceva, che è stata abbattuta negli Stati Uniti, non è un reperto antico, ma è stata fatta costruire dall’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. La statua demolita a Bristol, a sua volta, «era stata dedicata al mercante di schiavi Edward Colston (1636-1721) – le cui navi trasportarono dalle coste africane all’America almeno 100.000 persone rapite ai loro villaggi e ai loro affetti – solo nel 1895…Era nata, ed era poi sempre stata difesa, come un segno del perdurante razzismo della società inglese».

C’è realmente tutta questa paura che l’abbattimento o l’imbrattamento delle statue cancelli la memoria storica? C’è realmente tutto questo, di per sé legittimo, attaccamento alla cultura del passato, buono o cattivo che sia? Bene, si tratta di un attaccamento che costituisce senz’altro un valore da preservare. È per questa ragione che Montanari avanza la proposta della musealizzazione: le statue più controverse dell’Ottocento e del Novecento, egli afferma, «le statue che oggi non erigeremmo mai (a schiavisti, razzisti, fascisti, stupratori, nemici del popolo di ogni tipo) portiamole nei musei, dove vivono la memoria e la storia», dove i cittadini possono conoscerle «fin dalla scuola».

Non meno ragionevoli sono apparse le posizioni espresse sul tema da Nadia Urbinati: se la popolazione nera americana, afferma, fosse riuscita negli ultimi due secoli e mezzo o negli ultimi decenni a conquistare posizioni dignitose e di uguaglianza, probabilmente quelle statue non sarebbero cadute. Il loro abbattimento è dovuto al fatto che esse non sono soltanto il passato, ma sono anche il presente. È infatti la condizione permanente dei neri come di persone di seconda classe che rende quelle statue un affronto. Esse continuano ad essere percepite come costruzioni dei vincitori sui vinti, come costruzioni di chi ha il dominio contro chi non ce l’ha.

L’Urbinati mostra inoltre una certa capacità di ragionamento dialettico allorché sostiene che non tutti gli atti distruttivi sono di per sé privi di costruttività. Tingere di rosso la statua di Montanelli, afferma, è un modo di ribadire il fatto che essa rappresenta il simbolo di un passato che non passa, che è tutt’ora presente. La tintura di rosso costituisce pertanto un atto di vitalità, non un atto di morte.

È un principio teorico, quello della costruttività della distruzione, che potrebbe essere osservato anche da un altro punto di vista. Negli Stati Uniti e in Europa non sono pochi gli studenti e i dottorandi che hanno già deciso di cambiare il proprio argomento di tesi spostando la loro attenzione sul problema del razzismo, o che hanno presentato progetti di ricerca sul passato coloniale. Così come non sono pochi gli approfondimenti compiuti, persino dai cittadini più avulsi alle discussioni culturali, sugli orrori del colonialismo. Un aumento hanno fatto registrare anche le call for papers e i convegni dedicati al tema, destinati presumibilmente, questi ultimi, a tradursi in atti scritti, ovvero a dare vita a nuovi volumi. Dunque, possiamo nuovamente domandarci, il movimento del Black Lives Matter, sta determinando un offuscamento o un risveglio della memoria storica? Inoltre, tale movimento, non è forse esso stesso un movimento storico, anche quando si trova direttamente coinvolto nell’abbattimento delle statue?

A ben vedere, esso non soltanto costituisce un movimento che sta risvegliando la memoria storica, non soltanto esprime di per sé un movimento storico destinato ad essere in qualche modo studiato, ma in ultima analisi determina anche risultati storici tutt’altro che irrilevanti. Per la prima volta in assoluto, infatti, proprio sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, il re del Belgio si è scusato con il governo del Congo e con il suo popolo per le brutalità commesse dal proprio paese, a cavallo tra Otto e Novecento, nello Stato africano. Parallelamente la Tunisia ha preso coraggio e ha discusso in Parlamento una mozione (che poi purtroppo non raggiungerà i voti necessari per essere approvata) che prevedeva la richiesta alla Francia di scuse pubbliche e di risarcimenti economici per i danni commessi. Nel testo della mozione si sottolineavano gli “omicidi”, gli “stupri”, gli “esili forzati degli oppositori”, i “saccheggi alle risorse naturali” e il “sostegno alla dittatura” che il governo francese aveva compiuto a danno della popolazione tunisina. L’ondata di proteste antirazziste, che dagli Usa si è poi diffusa in tutto il mondo, ha trasmesso coraggio anche all’Algeria che, per bocca del suo Presidente, Abdelmadjid Tebboune, chiede le scuse ufficiali alla Francia per i 132 anni di occupazione coloniale, di devastazione del territorio, di violenze e massacri.

  1. La barbarie coloniale dall’Africa alla Cina. Il razzismo contro i neri e la sinofobia, due facce della stessa medaglia

Dunque, come dovrebbero comportarsi, tenendo conto di questo quadro, coloro che in Occidente, hanno a cuore le sorti dell’emancipazione e delle relazioni solidali tra i popoli?

Dovrebbero correre in difesa della “memoria storica”, condannando come atti vandalici e nichilismi di massa l’abbattimento e l’imbrattamento delle statue (riverberando quindi, volenti o nolenti, lo schema narrativo caro a Donald Trump) o dovrebbero portare avanti in tutte le loro conseguenze le rivendicazioni antirazziste e anticolonialiste che il movimento del Black Lives Matter ha messo in moto? Occorre tenere presente che l’universo coloniale, con l’orrore e il carico di violenza che lo contraddistinguono, racchiude una varietà talmente ampia di casi che ancora la coscienza dell’Occidente non è mai riuscita a interiorizzare, quando non proprio a conoscere. Certo, forse tutti hanno cognizione della “tratta dei negri”, della schiavitù su base razziale e del commercio di carne umana di cui il mondo euroatlantico si è reso protagonista e con cui si è arricchito nel corso dei secoli a spese del continente africano. Ma sono tutti altrettanto consapevoli della “tratta dei gialli” e della schiavitù dei cinesi col cui supplizio, ad esempio, è stata costruita in America la Ferrovia Transcontinentale? Questa tratta dei gialli, ha visto coinvolte, nel corso dei decenni, l’Olanda, l’Inghilterra, la Francia e il Portogallo e, per quanto riguarda la Cina, i porti dello Xiamen e di Macao, dove i cinesi venivano rapiti, oppure raggirati, attraverso la firma di un contratto in cui si precisava il numero di anni che avrebbero dovuto lavorare sotto i propri padroni in cambio degli approvvigionamenti (talvolta anche di pochi soldi) e della libertà alla conclusione del tempo pattuito. Si trattava in sostanza di una sorta di schiavitù temporalmente limitata. Avveniva tuttavia di frequente che lo schiavo cinese non venisse rilasciato al termine dell’accordo. Ancora più di frequente, in oltre il 50% dei casi (nel 75% a Cuba e intorno al 70% in Perù), accadeva che le condizioni disumane di lavoro a cui veniva sottoposto ne procurassero la morte prima della fine dell’accordo scritto, la cui durata si aggirava mediamente tra i 5 e gli 8 anni. Nondimeno la sorte riservata ai cinesi in patria, in seguito alle Guerre dell’Oppio e alle spedizioni coloniali dell’Occidente, era di gran lunga più spaventosa. Continuo oggetto di saccheggi, uccisioni e stupri da parte delle potenze straniere, il popolo cinese dà vita nel 1851 alla Rivolta dei Taiping contro il regime Qing-Manciù, accusato di complicità con i contrabbandieri d’oppio. Tale rivolta sfocia nella guerra civile più sanguinosa della storia mondiale, con una stima dai venti ai trenta milioni di morti, che ebbe fine con la repressione dell’esercito imperiale coadiuvato da quello britannico soltanto nel 1864. La distruzione economica e il drastico abbassamento del tenore di vita medio che ne scaturì, tuttavia, non fecero arrestare il processo di decimazione: la grande fame nella Cina del Nord del 1877-1878 uccide più di nove milioni di persone. Costretti a fuggire da una condizione estremamente precaria, in cui la morte sembra essere ogni momento dietro l’angolo, i cinesi vengono assorbiti dalla richiesta di manodopera dell’Occidente, che conosce un incremento con la fine della schiavitù dei neri. Negli anni ’40 soltanto l’Inghilterra poteva prelevare dal porto dello Xiamen fino a 50.000 cinesi all’anno. Altre centinaia di migliaia vennero prelevate in seguito dal porto di Macao. Soltanto dal 1850 e il 1875 vennero reclutate e portate via dalla Cina circa 1.280.000 persone.

Nel novembre del 1900, August Bebel, corrispondente e amico di Friedrich Engels, difende al Parlamento tedesco il popolo cinese e la Rivolta dei Boxer, denunciando l’intervento occidentale in Cina (a giugno era stata data vita all’Alleanza delle otto nazioni; un accordo stipulato tra Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Regno Unito e Stati Uniti per reprimere congiuntamente la lotta partigiana del gigante asiatico) come «una guerra di conquista…così barbara come non si è mai vista negli ultimi secoli».

Tra il 1911 e il 1928 la Cina vive la cosiddetta “Era dei signori delle guerre”. Il territorio della Repubblica viene diviso in centinaia di regioni, ognuna delle quali risulta controllata da un capo militare con un gruppo di forze armate a suo seguito. In quell’arco di tempo scoppiano 130 guerre intestine, con le potenze straniere, soprattutto Giappone e Inghilterra, che intervengono a difendere questa o quella fazione, a seconda di quale vittoria o sconfitta avrebbe loro permesso un più facile accesso alla produzione e allo smercio dell’oppio. Circa un milione di persone perdono la vita negli scontri armati, mentre nella sola provincia dello Shanxi il freddo e la fame ne uccideranno altre tre milioni. È un momento in cui Sun Yat Sen teme l’«estinzione della nazione» e l’«annientamento della razza», ovvero una sorta di “soluzione finale” ante litteram della questione cinese.

Le manifestazioni degli operai e degli studenti contro l’occupazione straniera e per condizioni lavorative più dignitose che prendono vita nel porto di Hong Kong (1922) e nella Concessione Internazionale di Shangai (1925), scateneranno come reazione repressioni sanguinarie.

Ora, anziché sobillare i manifestanti della propria vecchia colonia e sostenere ogni singolo moto secessionista interno alla Repubblica Popolare Cinese, con l’obbiettivo di rimettere le mani su un territorio ricco di manodopera e di risorse, non sarebbe forse il caso che oggi l’Occidente, a fronte anche del rapido resoconto storico tracciato sopra, ammetta le proprie colpe, o quanto meno porga delle scuse pubbliche e ufficiali alla Cina?

Il governo cinese, naturalmente, timoroso come nessun altro Stato al mondo di una guerra e di un inasprimento dei conflitti che possa minare la propria stabilità e interrompere la propria crescita economica (ancora fortemente arretrata, rispetto agli Stati occidentali, quando la si raffronti al dato demografico), versa in condizioni troppo fragili per avanzare tali rivendicazioni. Xi Jinping sa bene che il suo potere diplomatico è molto debole e che qualunque affermazione critica nei confronti dall’Occidente verrebbe dipinta dall’apparato mediatico di quest’ultimo come un atto di guerra, con conseguenze inimmaginabili.

Noi però, che abbiamo a cuore le sorti del pianeta e dei popoli e che cominciamo, anche grazie al Black Lives Matter, a ricordarci delle violenze che i nostri Stati hanno commesso a danno dei paesi del Terzo Mondo (nella tratta dei gialli, va detto per inciso, sembra sia stato coinvolto per un periodo di tempo anche il nostro Garibaldi), possiamo ingrandire il coro di questa ondata di proteste per dare anche alla Repubblica Popolare Cinese quella voce che non le viene concessa, e, anziché denunciare la distruzione della memoria storica nell’abbattimento di quattro statue, cogliere l’occasione per chiedere all’Occidente tutto, quando non un vero e proprio risarcimento danni, quantomeno il riconoscimento pubblico e ufficiale dei propri crimini coloniali a danno della Cina,.

Convogliare le energie in questa direzione sarebbe già un modo per imprimere una forte spinta emancipatrice al movimento del Black Lives Matter, mentre denunciare nelle proteste di quest’ultimo la distruzione della memoria storica, costituirebbe già una vittoria delle forze storiche filo-colonialiste del nostro presente.

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