di Mauro Alboresi, Segretario Nazionale PCI
La crisi del Governo Conte bis, provocata da Italia Viva la scorsa settimana con il ritiro dalla compagine governativa dei propri rappresentanti, è superata.
Con l’odierno voto del Senato della Repubblica, che segue quello espresso ieri dalla Camera dei Deputati, il presidente Giuseppe Conte ha ottenuto la necessaria maggioranza.
Al raggiungimento della stessa, come noto, hanno concorso, oltre ad alcuni senatori a vita, parlamentari provenienti da diversi gruppi e schieramenti, variamente denominati a seconda dei punti di vista, la stessa Italia Viva ha finito con l’astenersi.
Al Governo Conte non è stato chiesto di cambiare politica, ma essenzialmente di “cambiare passo”, in altre parole di rendere più incisiva la propria azione in relazione ad un programma, quello dato, ritenuto largamente idoneo a rispondere ai problemi finanziari, economici, sociali del Paese, drammaticamente enfatizzati dalla pandemia in atto.
Ciò che si evidenzia è essenzialmente un consolidamento in senso moderato della compagine governativa, delle proprie politiche, entro il quadro di riferimento dell’europeismo e dell’atlantismo, dichiaratamente contrapposto dai suoi sostenitori a quello populista e sovranista ricondotto alla destra rappresentata da Fratelli d’Italia e dalla Lega.
Nessuna discontinuità nel merito, quindi, in nome di un richiamo in tanti casi astratto agli interessi del Paese, che finiscono con l’essere soprattutto gli interessi di una parte di esso, quella più garantita, quella dei soliti noti, come tante, troppe volte evidenziato, anche in questi ultimi anni, dalla forbice delle disuguaglianze, mai così ampia.
Molti gli esempi possibili al riguardo.
Nel dibattito parlamentare inerente i destini del governo, relativamente alle misure economiche prospettate per sostenere le diverse categorie economiche colpite dalla crisi, le diverse componenti la maggioranza si sono divise sulle quantità delle stesse, sulla loro articolazione, non sulla fonte del loro finanziamento.
Un approccio che si ritrova anche a proposito della discussione in essere sul recovery plan, ossia sulle scelte da compiere, entro il quadro di riferimento dato dalla UE e dalla stessa finanziato attraverso il recovery fund con 209 miliardi, dei quali 127 sotto forma di prestiti e per la restante parte a fondo perduto.
Emblematico al riguardo quanto relativo alla sanità: per essa sono previsti soltanto 19 miliardi, a fronte di un fabbisogno dichiarato di almeno 40, e le diverse componenti si dividono, relativamente al come trovare le risorse necessarie, tra favorevoli e contrarie al MES, pur sapendo, le une e le
altre, che in ogni caso di ulteriore debito pubblico si tratta.
Un debito pubblico che dagli attuali 2586 miliardi di euro salirà, con l’ultimo scostamento di bilancio previsto, finalizzato a sostenere il cosiddetto ristori quinques, a 2609, fissando il rapporto dello stesso con il PIL ad oltre il 160%, ponendo così l’Italia ai primi posti e con Cipro e la Spagna tra gli “osservati speciali” dell’Unione Europea.
In nessun caso è presa in considerazione la scelta di ricorrere, almeno in parte, ad altre forme di finanziamento, ad esempio attraverso una patrimoniale sulle grandi ricchezze immobiliari e finanziarie, una riforma fiscale autenticamente progressiva, che dia respiro ai redditi bassi, a quelli
medi, chiamando quelli alti, premiati dalle politiche tributarie di questi ultimi decenni, ad una maggiore compartecipazione.
Una impostazione, quella richiamata, che lo schieramento di centrodestra, che per la cultura che esprime e per l’insieme delle politiche che propone non può in alcun modo rappresentare un’adeguata alternativa di governo, esaspera sino al punto di proporre l’assoluta iniquità rappresentata dalla flat tax, incurante dell’enorme impatto che la stessa avrebbe sui conti pubblici.
Siamo nella sostanza di fronte ad un quadro politico che nel suo insieme per tanta parte muove in continuità, che prospetta una situazione nella quale a pagare il prezzo della crisi saranno nella sostanza chiamati i soliti noti, ossia il mondo del lavoro, mai così frammentato e mortificato sul
terreno della tutela, i pensionati, i ceti popolari, mai così lontani dal vedere rappresentate e risolte le loro istanze.
Ciò che serve, lo abbiamo più volte sottolineato, non sono generici appelli agli interessi del Paese, all’unità, né la promozione di governi di scopo, di unità nazionale, etc.
Servono politiche in assoluta discontinuità rispetto a quelle date, a quelle prospettate, ieri come oggi, dal centrosinistra e dal centrodestra, in quanto le une e le altre muovono all’interno di un quadro di compatibilità dato dai cosiddetti poteri forti, entro cui gli interessi del blocco sociale al quale noi guardiamo, che assumiamo come riferimento, non possono trovare risposta.
Occorre pertanto promuovere, attorno ad una qualificata piattaforma alternativa, la più ampia unità d’azione possibile tra tutte le soggettività politiche e sindacali che non si rassegnano alla situazione data, la più ampia mobilitazione sociale, proporsi di acquisire il massimo consenso.
Si deve e si può cambiare, e noi, il PCI, ci siamo.