Paolo Volponi nasce a Urbino il 6 febbraio 1924: il padre era proprietario della fornace di laterizi, di cui restano ruderi vicino alla città. Frequentò il liceo classico e si iscrisse a giurisprudenza. A vent’anni aveva risposto ai bandi di arruolamento della Repubblica di Salò raggiungendo con altri giovani su un camion della ditta paterna i partigiani della V brigata Garibaldi Marche in montagna e vivendo direttamente per qualche tempo l’esperienza della resistenza.
Aveva 24 anni quando pubblicò il suo primo libretto di poesie, nella collana dell’Istituto d’Arte di Urbino, col titolo Il ramarro e la modesta tiratura di 120 copie. Versi post-ermetici, come lui stesso li definì, che si presentavano con l’autorevole prefazione di Carlo Bo, già affermato critico e docente dell’Ateneo urbinate, prima di esserne rettore a vita.
Nel 1950 ebbe il suo primo impegnativo lavoro presso l’UNRRA-Casas, che si occupava del soccorso ai senza tetto e della ricostruzione delle case devastate dalla guerra: condusse inchieste in Abruzzo, Calabria, Sicilia, operò a Roma, dove conobbe l’industriale “illuminato” Adriano Olivetti, che ebbe modo di apprezzarne le qualità organizzative e umane e nel 1956 lo chiamò a Ivrea come collaboratore e poi direttore dei Servizi sociali della sua impresa.
A Roma aveva frattanto conosciuto Pier Paolo Pasolini e partecipava alla rivista “Officina”, con Francesco Leonetti e Roberto Roversi.
Indice
Il legame con la propria terra
Il rapporto con Urbino e il Montefeltro è rimasto sempre forte, spesso tornava nella casa di famiglia dove era nato. Aveva condiviso come tanti il “mito” di Roma – notoriamente considerata “la più grande città delle Marche” – e di questo fece un libro intimo, tenuto gelosamente nel cassetto per oltre trent’anni, fino alla pubblicazione con poche modifiche e al successo nel 1991: La strada per Roma. Un romanzo che, come e più di altri precedentemente pubblicati (Il sipario ducale, per esempio, o Il lanciatore di giavellotto), recupera dalla vita vissuta e consegna alla letteratura universale i luoghi di Urbino, i vicoli, la piazza, i portici, il teatro, l’Università, così come Leopardi aveva fatto con il colle, la torre e le vie del borgo natìo, nel suo vitale legame di odio-amore per Recanati.
Volponi amava Urbino e le Marche, ma come era stato per Leopardi con Recanati ne viveva in maniera inquieta e tutt’altro che idillica la presenza e il ricordo. In lui i luoghi della giovinezza e i personaggi fuori tempo della provincia e del mondo contadino diventano la chiave per penetrare dal di dentro la realtà che è dominante nella società contemporanea, il mondo dell’industria e del capitale. Così il contrasto Urbino-Roma o Urbino-Milano, che è dentro la sua biografia, diventa nell’opera sua espressione di un più vasto conflitto esistenziale ed epocale, crisi della modernità nel momento dell’apparente suo massimo trionfo, gli anni del miracolo economico.
Volponi aveva creduto sinceramente nelle possibilità riformatrici e nella vocazione progressista della grande industria, stimava Adriano Olivetti cui resterà sempre legato e al quale dedicherà nel 1989, chiamandolo “maestro dell’industria mondiale”, il suo capolavoro di narrativa potente, introspettiva di un mondo che ben conosceva e non più amava, Le mosche del capitale. Le illusioni infatti erano cadute “all’apparir del vero”, già nel primo suo romanzo, Memoriale, pubblicato da Garzanti nel 1962, che aveva aperto anche la strada al filone della “letteratura industriale”. Come già Pirandello e Svevo, i grandi del Novecento cui è stato accostato, Volponi ha fatto della follia la chiave della conoscenza del mondo contemporaneo, caratterizzato – siamo ben oltre la metà del secolo – dal dominio pervasivo e disumanizzante dell’industria capitalistica moderna. L’ex contadino Albino Saluggia, che torna dalla prigionia in un lager tedesco alla fine della guerra e si inserisce con molte attese nella fabbrica, ben presto ne coglie con la lucidità dei folli – rimuovendo e trasformando la propria tubercolosi, alimentando la mania di persecuzione – i meccanismi più profondi che stritolano l’identità e l’umanità delle persone concrete, l’ossessività dei ritmi, l’isolamento individuale raramente spezzato, quella spersonalizzazione e sottomissione alla macchina, che i “normali” non avvertono e che è il risvolto più profondo del boom produttivistico e consumistico.
La critica dell’alienazione capitalistica
Su questo tema, che è anche dell’illusione tecnologica, Volponi ritorna per varie vie: come con La macchina mondiale (1965), dove il protagonista Anteo Crocioni, anche lui diverso e incompreso, è ossessionato dall’idea di progettare una macchina in grado di rimettere ordine in un mondo travolto dalla follia.
La coscienza drammatica dell’era atomica portò Volponi ad impegnarsi nelle battaglie pacifiste tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, e gli ispira Il pianeta irritabile (1978), collocato in un allucinante scenario di un dopo guerra che torna a nutrire incubi odierni.
Volponi arriva alla politica – che lo vede protagonista dai primi anni ottanta del Novecento come parlamentare della sinistra indipendente e poi come dirigente politico nell’ultimo Pci e nella prima Rifondazione – attraverso la letteratura, che mai per lui è diletto disinteressato, ma piuttosto scavo nella condizione umana e nelle contraddizioni del presente, sforzo di conoscenza e di trasformazione, coraggio – quando gli intellettuali tendono al conformismo -, della parola controcorrente e della testimonianza di verità. Scrittore impegnato, dunque, a cui erano estranei l’arte evasiva e la cultura fine a sé stessa. “La cultura cos’è?” – si era domandato in uno dei suoi ultimi interventi. E aveva risposto: “Sono gli strumenti per affrontare la realtà… È la somma degli strumenti che consentono di modificare la realtà, di capirla e di modificarla.”
Conoscenza critica e tensione alla trasformazione, dunque, che gli facevano guardare con fortissima preoccupazione all’omologazione sub-culturale avanzante dalle prevalenti proposte e modelli televisivi.
Con il PCI e i lavoratori
Era a Torino, presidente della Fondazione Agnelli, quando decise, come Pasolini e altri noti intellettuali, di esprimere pubblicamente dichiarazione di voto alle elezioni amministrative regionali a favore del Partito Comunista Italiano, dichiarazione che apparve su “l’Unità” del 10 giugno 1975. Fu costretto a dimettersi dall’incarico, divenuto incompatibile con le preferenze del “mondo libero” in cui era collocato il padronato Fiat.
Fu in seguito presidente della Cooperativa soci dell’Unità, candidato come indipendente nelle liste del PCI ed eletto al Senato nel 1983 nel collegio di Pesaro Urbino, confermato nella successiva legislatura (1987), ed eletto infine alla Camera nel 1992 nelle file della prima Rifondazione comunista.
Nel settembre 1989 aveva vissuto una terribile sciagura familiare, la perdita del figlio maschio Roberto vittima di un disastro aereo durante un viaggio a Cuba.
Due mesi dopo arrivò un’altra collettiva sciagura di tipo politico con la proposta della Bolognina, quando l’ultimo segretario Occhetto avviò la liquidazione dell’esperienza storica del PCI.
Paolo Volponi colse subito il carattere opportunistico della “svolta” famigerata, che cedeva di colpo alle tradizionali pesanti e incessanti pressioni anticomuniste del grande capitale e dell’imperialismo americano.
Prevedendo lucidamente l’impoverimento che ne sarebbe derivato per i lavoratori e la cultura, in termini di diritti e di libertà, non esitò un istante a prendere posizione, sottoscrivendo un appello di uomini di cultura e dirigenti politici marchigiani. Si iscrisse d’impeto al PCI, lui che era stato fino ad allora un intellettuale d’area senza tessera, per partecipare con pieno diritto e convinzione alla lotta contro la capitolazione ingannevole e falsamente innovativa che avrebbe portato alla fine del PCI, che era per lui precipitazione di burocrati in fuga dalle difficoltà del movimento operaio e del comunismo internazionale.
Si immerse più direttamente e appassionatamente nell’agone politico, dedicando le ultime sue energie al progetto di rinnovamento e rifondazione del partito comunista, nel segno della storia e del pensiero marxista, portando tra i compagni e le compagne lo stimolo ardente del suo spirito critico e la sua schiettezza e durezza di carattere che scuotevano pigrizie e inerzie mentali e burocratiche.
Volponi credeva profondamente nell’avvenire del comunismo come alfiere della liberazione del lavoro dallo sfruttamento e dell’umanità dalle guerre, portatore di un’idea universale e più avanzata di civiltà. E riteneva che, di fronte alla deriva moderata in cui vedeva scivolare sempre di più il nostro paese, i comunisti dovessero non annebbiare ma rafforzare la loro identità antagonista, indicando come via maestra per affrontare le difficoltà della situazione politica la ricerca dell’unità sui problemi sociali e il radicamento di massa, da realizzarsi con l’attenzione concreta ai problemi della vita, a partire dal lavoro, aprendo canali comunicativi nuovi e da inventare con i giovani, che pure non lusingava, ricercando un dialogo con il comunitarismo cristiano, nel segno della lotta per una società e un mondo a dimensione umana. Contro il settarismo e la chiacchiera inconcludente, che aborriva, si sforzava di indicare proposte pratiche di lavoro.
Il lascito
Oltre all’impegno nazionale non dimenticava i compagni delle Marche, sia contribuendo alle iniziative e alla riorganizzazione comunista, e sia sul fronte culturale che gli era più congeniale. Fu tra i fondatori nel 1991 del Centro culturale marchigiano “La Città futura”, presidente onorario, e protagonista nel 1993 del convegno in Ancona su “Pasolini interprete del nostro tempo”.
Gli ultimi tempi furono di dura sofferenza per la malattia che lo costringeva ad estenuanti sedute di dialisi. Morì il 23 agosto 1994, all’età di 70 anni, dopo un improvviso aggravamento delle sue condizioni di salute e un vano trasporto all’ospedale di Torrette di Ancona per un tentativo di intervento.
Volponi ci ha lasciato, insieme al patrimonio della sua creazione artistica che lo pone tra i classici della letteratura italiana, un esempio di coraggio intellettuale e di rigore morale, che hanno contrassegnato momenti decisivi della sua vita. È stato per generale riconoscimento uno dei più grandi poeti e scrittori italiani della seconda metà del Novecento, ma non vanno dimenticate le scelte oneste e coraggiose dalla parte dei lavoratori, la militanza intelligente e appassionata nelle lotte per la pace e in difesa degli ideali del comunismo, in cui spese le ultime sue energie.
Interrogato poco prima di morire sulla crisi della sinistra in Italia egli dettò questo suo pensiero penetrante e ancora attuale:
“la sinistra dovrebbe uscire da questo vecchio discorso della politica come si fa oggi, in sostanza: per formule, per allusioni, per elusioni, per prepotenze, per conquiste di maggioranze, per complicità, per soprattutto esiti alla fine elettorali e comunque di conquista di qualcosa di potere. E allora i giovani non capiscono questo, perché non sono in questo gioco, non ne sono toccati: ne sono certo toccati, ma loro non se ne rendono conto, ne sono toccati, perché per loro non si prepara nessun avvenire con discorsi di questo genere.
Allora la sinistra dovrebbe ritrovare una lingua che anche i giovani capiscano.
Parliamo di quello che sarà il lavoro italiano nei prossimi anni, dove si svilupperà, come potrà svilupparsi, dove potrà trovare le sue risorse, dove si creeranno veramente nuovi posti di lavoro; non occupazione qualunque, ma qualificata, produttiva, nuovi centri di ricerca, di studio, laboratori, attività scientifiche che aumentano il potere culturale, tecnologico di una nazione; come rimettere la nostra agricoltura in piedi con un minimo di efficienza, ridare una destinazione a certi territori, a certe città abbandonate, a certi paesi che sono soltanto colonizzati dalla politica del centro e dalla televisione del centro...
Noi per cultura intendiamo il lavoro, cioè i mezzi e gli strumenti per modificare le cose, anche i rapporti sociali. E noi dovremmo essere su questo veramente nuovi e attivi, con delle proposte che rompano dei vecchi schemi “.
Caro compagno Paolo, sei sempre con noi, nel cuore dei compagni.
Ruggero Giacomini
Segretario PCI delle Marche