Difendere il congedo di paternità sul lavoro: una questione di civiltà

In questi giorni è notizia di una sentenza che ha risarcito un lavoratore licenziato ingiustamente perché nel periodo di congedo parentale richiesto in assistenza alla cura della propria figlia l’azienda ne aveva contestato le modalità di utilizzo di tali giornate.

È una pronuncia di civiltà, quella del Tribunale civile di Perugia sezione lavoro, che ha sanzionato un’azienda per un licenziamento ai danni di un lavoratore di Perugia che nel 2022 prese tre giorni di congedo per assistenza alla figlia neonata.

Al di là del caso specifico e delle valutazioni di merito, viene ribadito il concetto che nella cura familiare occorre un equilibrio e un’assistenza reciproca tra coniugi o conviventi, e che vecchie concezioni che prevedono una visione a compartimenti stagni delle vite di uomini e donne in relazione agli equilibri del lavoro e della cura non può sussistere nel nostro paese.

È un elemento su cui riflettere il fatto, salvo che tale sentenza si basa sul congedo parentale di 10 mesi per il quale hanno diritto entrambi i genitori, che in Italia abbiamo a malapena dieci giorni di congedo di paternità obbligatoria pagata all’80%, che si possono aggiungere al parentale (pagato al 30% dello stipendio), mentre in altri paesi il congedo di paternità (obbligatoria) dura mesi.

La discriminazione affettiva alla quale sono costretti gli uomini in nome del lavoro è strettamente correlata alla discriminazione delle donne sul lavoro: questa è una battaglia che bisogna imparare a capire, e a fare propria, perché è attuale: lavoro non vuol dire farsi assorbire nella propria totalità (discorso che vale anche per chi non ha figli) ma dare la possibilità a tutti di averlo, capendo anche l’importanza dell’equilibrio tra il lavoro e il privato famigliare (che è comunque lavoro di cura).

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