di Bruno Steri, segreteria nazionale PCI
«L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione “intelligente”, il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini &C e, con ciò, il fallimento del patto politico “post-ideologico”». Questo dicevamo una diecina di giorni fa; e questo va ribadito oggi, alla luce del progetto di manovra appena licenziato dal governo. Detto di passaggio, al suddetto obiettivo ha inteso corrispondere la manifestazione dello scorso 20 ottobre, cui il Pci ha aderito, essendo i contenuti della stessa concentrati nella parola d’ordine «nazionalizzazioni»: ciò al fine di evidenziare l’attrito fra le estemporanee dichiarazioni degli esponenti governativi e il più che probabile perdurare di un’assenza di fatti concreti; ma anche per riappropriarsi di un tema strategico che è nostro, che cioè comparirebbe in primo piano in una nostra proposta programmatica, accanto a una riforma fiscale fortemente orientata in senso progressivo (l’opposto della flat tax) e a una consistente imposta patrimoniale (la stessa che Matteo Salvini ha seccamente escluso) . La fase è difficile e tutt’altro che favorevole dal punto di vista dei rapporti di forza, ma ciò non autorizza a restare silenti in attesa degli eventi. Occorre ricostituire le forze, muovendo sin dall’inizio i passi giusti. E provando a dire le cose giuste.
Dare a Cesare quel che è di Cesare
Ma ricapitoliamo i termini della questione. Cominciando in primo luogo col riconoscere a Cesare quel che è di Cesare. Per quel che è dato capire dalla Nota di aggiornamento del Documento economia e finanza (Nadef), la manovra contiene impegni in direzione di un miglioramento sociale che il mondo del lavoro da tempo non vedeva: da quando, per un verso, è iniziata l’epopea berlusconiana e, per altro verso, la sinistra ha smesso di fare la sinistra (anche solo socialdemocratica), votandosi al rigore di Bruxelles e Berlino (questo e non altro ci dice l’approvazione del pareggio di bilancio in Costituzione) e piegando la testa davanti a orientamenti politici chiaramente antipopolari. Certo gli impegni vanno verificati all’atto della loro concretizzazione e, come vedremo, non è tutto oro quel che riluce nelle misure annunciate dall’esecutivo: siamo lontani cioè da una riscossa di classe. Tuttavia, la drammatica situazione in cui è precipitata una larga parte della popolazione del nostro Paese non consente atteggiamenti «aristocratici» e strumentalmente minimizzanti. Nella manovra c’è un «reddito di cittadinanza» (e per un disoccupato avere 780 euro è meglio che non avere niente); c’è il superamento della legge Fornero con l’instaurazione della cosiddetta «quota 100» (e per un lavoratore andare in pensione a 62 anni dopo 38 anni di lavoro è meglio che andarci a 67 anni); c’è un ridimensionamento, almeno iniziale, della cosiddetta «flat tax», con aliquota piatta al 15% per piccole imprese e partite Iva fino a 65 mila euro (con sollievo di una fetta importante di piccola borghesia); c’è un abbattimento dell’Ires sugli utili d’impresa, ma non a pioggia e condizionato al loro reinvestimento; c’è qualche provvidenza per risarcire quanti sono stati vittime delle “crisi bancarie” (leggi: ruberie bancarie); ci sono i tagli alle “pensioni d’oro”; c’è la cosiddetta «norma Bramini», che abolisce il pignoramento della casa per chi ha contratto debiti con banche ma ha crediti non riscossi con lo Stato; c’è qualche (risicata) risorsa per progetti regionali che puntino ad una limitazione delle liste d’attesa nella sanità; c’è la proroga degli ammortizzatori sociali per il 2018 e 2019 per imprese con più di cento dipendenti. Tutto ciò è in linea con il rifiuto di abbassare per il 2018 il rapporto tra deficit e Pil al di sotto del 2,4% per andare incontro al diktat imposto dal fiscal compact, la normativa europea che prevede pareggi di bilancio o, in ogni caso, deficit contenuti in vista di un rientro a tappe forzate dal debito pubblico.
Dell’assai meno esaltante capitolo del condono e del senso complessivamente deficitario della manovra dirò più avanti. Sin qui però dovrebbe risultare chiaro che una componente «sociale» nella manovra è presente; e, cosa importante, essa è particolarmente tenuta sotto osservazione dal mondo del lavoro e non solo. Lo ha chiaramente fatto intendere Pierpaolo Leonardi, segretario generale della Usb, nel corso della riunione che ha preparato la succitata manifestazione, auspicando di rendere preminenti contenuti capaci di metter pressione sul governo senza tuttavia disconoscere le pur delimitate migliorie sociali. Lo ha altresì fatto capire in una recente intervista a «La Repubblica» (del 19 ottobre scorso) la stessa Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, lasciando trapelare cautela dietro l’ufficialità dell’opposizione al governo. Segno evidente che le organizzazioni sindacali non possono non tener conto della percezione diffusa di una discontinuità, nonché di elementari esigenze materiali e determinati umori dei lavoratori (non sarà un caso se i primi sondaggi dicono che il 60% degli italiani approva la manovra). Se si considera che il precedente governo si era accomodato a prevedere, in sintonia con le richieste dell’Unione europea, un rapporto deficit/Pil dello 0,9% per il 2019, il pareggio di bilancio per il 2020 e un avanzo dello 0,2% per il 2021, si può apprezzare il ben visibile cambio di marcia. Tutto ciò sembra dunque giustificare il giudizio sulla manovra dato a suo tempo e con beneficio d’inventario da Stefano Fassina («Una manovra coraggiosa, quella che avrebbe dovuto fare il Pd»); e, viceversa, spiega l’irritazione subito manifestata dal centro-destra di Berlusconi e Meloni, i quali hanno invitato la Lega a sciogliere un sodalizio di governo che a loro dire avrebbe imboccato una strada «statalista», tradendo il mandato elettorale ispirato al taglio delle tasse e al sostegno alla libertà d’impresa. Nella serrata dialettica interna al patto di governo, questo delicato passaggio di politica economica ha dunque inizialmente fatto registrare una certa ripresa dell’impostazione più vicina al M5S: ripresa che l’economista Riccardo Puglisi (lavoce.info) si è incaricato di tradurre in euro, evidenziando i dati di «una manovra molto più gialla che verde». Nella distribuzione delle risorse messe a disposizione dallo sforamento del 2,4%, 6,75 miliardi di euro finanzierebbero il reddito di cittadinanza voluto da Di Maio; 600 milioni andrebbero a supporto della Flat tax sponsorizzata dalla Lega di Salvini; 6,76 miliardi sarebbero destinati a coprire la spesa (iniziale) prevista per il superamento della legge Fornero, auspicato da entrambe le parti. Risultato di questa partita intra-governativa: 10,12 miliardi complessivi a Di Maio; 3,975 a Salvini.
Ma i ricchi non piangono
Ovviamente la storia non è tutta qui; anzi, c’è di molto peggio. E, d’altra parte, un giudizio complessivo deve coinvolgere aspetti strutturali che danno conto di un’ispirazione della manovra nient’affatto condivisibile. Intanto va detto che, più che alla riscossa del mondo del lavoro, in questi ultimi giorni abbiamo assistito alla riscossa di Matteo Salvini: il quale anche sui temi di politica economica è riuscito a consolidare un suo approccio, che è organicamente di destra, imponendo – dopo aver quotidianamente professato propositi di «cambiamento» e «onestà» – la vergogna di un ennesimo pesante condono. Poco conta che il M5S abbia sventato in extremis ignominie anche peggiori, costringendo il suo alleato di governo a rivedere il pacchetto condono e a escludere da esso scudi fiscali a copertura di capitali portati all’estero e depenalizzazioni per riciclaggio, fatture farlocche e reati consimili. Quel che resta è comunque un duro colpo alla credibilità del «governo degli onesti». Non si tratta solo e tanto della cancellazione di debiti sotto i 1000 euro (multe, bolli auto ecc) contratti dal Duemila al Duemiladieci, che comunque coinvolgerebbe 10 milioni di cittadini e costituirebbe un invito a successive insolvenze; né della rottamazione di cartelle dell’Agenzia delle Entrate dal Duemila a oggi. Quel che soprattutto pesa sull’«onorabilità» e credibilità del governo è l’ennesima «dichiarazione integrativa», concernente la possibilità di sanare il 30% del reddito non dichiarato, fino e non oltre 500 mila euro (100 mila per cinque anni), versando al fisco la mancia del 20% dell’imponibile emerso. Il contenuto di questa misura, fortemente voluta da Matteo Salvini, smentisce platealmente le giustificazioni addotte da esponenti del M5S tese ad accreditare la necessità di andare incontro a quanti hanno dichiarato il giusto ma hanno poi avuto difficoltà a pagare. Niente di tutto ciò: al contrario, si tratta dell’ennesimo invito a evadere il fisco e ad aspettare la prossima sanatoria.
Di certo, tutto questo è destinato a diventare materia di riflessione per i votanti CinqueStelle (almeno per la metà di essi che secondo l’Istituto Cattaneo proviene da sinistra). Ma va detto che un’impronta tutt’altro che progressiva era già presente nella bozza di programma, con la proposta della «flat tax». In definitiva, il condono si aggiunge a una «flat tax» che, come si è detto, è per ora circoscritta, ma che nelle intenzioni dei proponenti punta a pervenire a due sole aliquote fiscali, con esorbitanti benefici per i ceti abbienti, finanziati con tagli ad agevolazioni e detrazioni fiscali ai danni dei «soliti noti»: un tale combinato disposto configura un’impostazione di fondo dal chiaro marchio di classe e ispirata alla reaganomics. Giustamente è stato ricordato (cfr. Ascanio Bernardeschi, Cambiare tutto per non cambiare niente, in www.lacittafutura.it, 13 ottobre 2018) che, quando l’Irpef fu istituita, c’erano 32 aliquote fiscali, dalla più piccola al 10% alla più grande al 72%: diminuirne il numero equivale ad andare in una direzione che è l’esatto opposto della progressività fiscale.
Un punto strutturale e discriminante
C’è un ulteriore elemento che è strutturale ed è discriminante per una valutazione adeguata dell’operato «giallo-verde». Prima però è bene precisare che ritengo ipocrite e degne di miglior causa le strida levatesi dal versante di centro-sinistra contro una manovra definita «populista» e «assistenzialista»: queste critiche nascondono la coscienza sporca di chi ha la responsabilità, assieme al centro-destra, di aver lasciato che le condizioni d’esistenza e di lavoro in questi ultimi tre decenni involvessero drammaticamente. Tali critiche vanno rispedite al mittente, al pari dell’accusa, rivolta al governo, di irresponsabile mancanza di rigore e violazione delle compatibilità economiche: è stata proprio l’austerity di lorsignori ad aver impoverito il paese, deprimendo la sua ricchezza e portando il rapporto debito/Pil alla stratosferica percentuale del 132%. Il medesimo trattamento va riservato all’ondata di critiche nei confronti del governo provenienti dai luoghi sovranazionali del potere costituito (Commissione europea, Fondo monetario internazionale, agenzie di rating): non sono questi i pulpiti da cui poter impartire lezioni (nei confronti di questo governo e tanto meno nei confronti di noi comunisti). Tra l’altro si tratta con ogni evidenza di clamori allarmistici dettati da pretestuosi interessi molto politici e poco oggettivi, come ad esempio è testimoniato dall’assurda agitazione suscitata dalla percentuale del 2,4% prevista per il rapporto deficit/Pil nel 2019, che è prevalentemente più bassa di quelle praticate dai precedenti governi: 4,2% nel 2010; 3,7% nel 2011; 2,9% nel 2012 e nel 2013; 3% nel 2014; 2,6% nel 2015; 2,5% nel 2016; 2,3% nel 2017.
Resta tuttavia un preminente limite strutturale che i comunisti hanno il dovere di denunciare: il governo «giallo-verde» ha annunciato di voler invertire una tendenza sul piano della sensibilità sociale; ma non ha nelle sue corde – nella sua ispirazione di fondo, nel suo impianto ideologico e politico – la capacità di aprire una pagina davvero alternativa alla situazione vigente, più favorevole alle classi popolari in termini di condizione sociale e rapporti di forza. Non sto parlando di prospettive socialiste – cosa del tutto ovvia – ma anche solo di correzione del modello di (sotto)sviluppo imperante. Come si è detto, al netto di un’ispirazione di fondo non certo rivoluzionaria, i provvedimenti messi in cantiere mostrano comunque di voler rispondere a qualcuna delle più urgenti esigenze sociali. Va precisato che, date le limitate risorse messe a disposizione, essi rispondono inevitabilmente solo in parte, lasciando scoperte e senza risposta urgenze altrettanto drammatiche: ad esempio, in campo sanitario, è sacrosanto prevedere finanziamenti per accorciare le liste di attesa, ma sarebbe altrettanto urgente togliere il super ticket, che invece rimane, e destinare ai contratti sanitari ben più dei 284 milioni previsti (la cui insufficienza ha già indotto a protestare in piazza il personale sanitario); allo stesso modo, in campo previdenziale, non c’è dubbio che la quota 100 sia una provvidenza importante, ma essa non può servire a risolvere il drammatico problema di tanti giovani, disoccupati o con lavoro intermittente, che non riusciranno a mettere insieme i contributi necessari al trattamento pensionistico (un problema la cui definitiva soluzione richiederebbe l’abbandono del sistema contributivo e il ritorno al più solidale sistema retributivo, con relativo aumento della spesa pubblica). Oltre a ciò, c’è da chiedere come si continuerà a finanziare la stessa quota 100, dopo che per il primo anno avrà usufruito dei proventi del condono (che sono una tantum). Potremmo continuare a elencare le urgenze che le risicate risorse disponibili lasciano inevase. Conviene però andare direttamente al nocciolo della questione: per una reale svolta di politica economica, per una politica espansiva che abbia quale motore propulsivo l’investimento pubblico, occorrerebbe operare in deficit, cioè praticare quel deficit spending che è l’opposto del pareggio di bilancio e dei vincoli predicati e imposti dall’Unione europea: non dunque tagli draconiani alla spesa imposti da rigidità ragionieristiche, ma selezione delle spese finalizzata a distinguere quelle dissipatrici di risorse da quelle potenzialmente produttive di ricchezza, in vista di investimenti che siano il volano per politiche industriali e creatrici di lavoro.
Per siffatte scelte occorrerebbero due decisioni politiche che il governo «giallo-verde» non vuole o comunque non può fare. In primo luogo, un recupero della propria autonomia in tema di politiche di bilancio, monetarie, fiscali e del lavoro, in sintonia con la fine della sbornia privatizzatrice e il rilancio di un robusto interventismo pubblico: ma ciò significa rotta di collisione con gli orientamenti dell’Unione europea e i vincoli di Maastricht, rimessa in discussione della moneta unica e di questa stessa Unione europea; in secondo luogo, sul piano interno, un travaso di ricchezza da profitti e rendite a salari (diretti, indiretti e differiti) anche attraverso una decisa revisione dei meccanismi di prelievo fiscale, con accentuazione del loro carattere progressivo, e tramite qualche forma di imposta patrimoniale. Questo sarebbe l’unico vero e possibile «cambiamento»; ma è evidente che tali decisioni non possono scaturire da un patto che connette un approccio di destra (Lega) con uno interclassista (M5S). Per questo è bene non mollare la presa critica sul governo, anche in considerazione di ciò che sembra pericolosamente profilarsi con le prossime elezioni europee: un diluvio populista di destra. Beninteso, non siamo distratti, sappiamo che le forze della sinistra di classe non sono messe bene; e che, in ogni caso, sarebbe inutile e anzi dannoso ripercorrere scorciatoie di breve momento. Ma proprio per questo è necessario provare a ricostruire nel nostro paese e nel più breve tempo possibile un partito comunista degno di questo nome.