di Laura Baldelli
Ancora un film sulla Latino-America, dopo “Roma” di Alfonso Cuaron, “Santiago, Italia” di Nanni Moretti, è la volta di “Una notte lunga 12 anni” del giovane regista uruguaiano Alvaro Brechner, una pagina di cinema civile, che racconta la prigionia disumana durante la dittatura in Uruguay di tre oppositori Josè Mujica, Eleuterio Fernandez Huidobro e Mauricio Rosencof, dopo il colpo di stato militare del presidente Bordaberry.
Il film è stato presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, dove ha sorpreso pubblico e critica ed è uscito nelle sale italiane grazie al coraggio imprenditoriale della BIM distribuzione e della Movies Inspired, che hanno permesso ad un film importante sul piano sociale e della memoria storica di arrivare al grande pubblico.
Il film, girato con pochi mezzi, merita anche stilisticamente, inteso come cinema di narrazione, che rifiuta ogni compromesso di gradimento, pochi dialoghi e dove forte è l’esperienza documentaristica dell’autore.
Tutto il lavoro è frutto di anni di ricerca del regista, che contrariamente a quanto ci si aspetti, nel film non parla di politica, della dittatura militare che ha oppresso l’Uruguay dal 1973 al 1985, ma si concentra sulla detenzione durissima dei prigionieri politici, spinta oltre l’immaginabile per annientare la
loro mente; significativo è lo scandire del tempo dove i 12 anni sono contati in giorni, e furono 4323. Il suo intento è stato quello di indagare cosa accadeva nelle menti dei detenuti in isolamento, privati di tutto, e come potessero mantenere la lucidità per così tanto tempo. E’ un film sganciato dalla memoria dell’Uruguay, si spinge coraggiosamente a raccontare l’universalità della lotta
civile, l’oppressione del potere militare fascista e l’importanza dei Diritti Umani.
La sceneggiatura è tratta dal libro autobiografico “Memorias del calabozo” (memorie di prigione) dei due prigionieri Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernandez Huidobro, che hanno anche partecipato assieme a Brechner alla stesura.
Libro e film sono un lungo racconto esistenziale sulla detenzione, di ciò che resta di un essere umano dopo la privazione di ogni dignità di esseri umani e la volontà di condurli alla pazzia, e di come si riesca a sopravvivere senza perdere la gentilezza, l’ironia, il sorriso, la creatività.
Brechner riesce da subito a costruire un’empatia tra i personaggi e lo spettatore, grazie anche ad una splendida colonna sonora di Federico Jusid, che raggiunge l’apice quando Silvia Perez Cruz canta con un’originalissima interpretazione da brividi “The sound of silence”, oscurando i mitici Simon and Garfunkel.
Incredibilmente non mancano momenti di umorismo, tutti dedicati alle ottuse forze armate, così il film mescola irrisione grottesca e poesia.
La linearità narrativa della detenzione è inframezzata dai flash-back che raccontano le azioni dei protagonisti, militanti guerriglieri del Movimento di Liberazione Nazionale, che prima negli anni ‘60 erano stati Tupamaros e volevano sull’onda della rivoluzione cubana portare la rovoluzione in Uruguay.
Gli attori, bravissimi e noti solo nel circuito della Latino-America, sono stati coinvolti totalmente dal regista nello studio della mente umana con i neurologi e sono dimagriti per entrare nella parte.
La fotografia e i movimenti di macchina contribuiscono al racconto delle allucinazioni date dall’incomunicabilità dell’isolamento e i muri delle prigioni sono ricorrenti nelle inquadrature, perchè furono parte integrante della reclusione, perché unica percezione.
La scelta dei luoghi è anch’essa frutto di ricerche su tutto il territorio, perché la detenzione spesso non fu in prigioni normali, ma in luoghi ed edifici destinati ad altro e trasformati in prigioni inumane, proprio per evitare che i prigionieri fossero rintracciati dalle famiglie. La resistenza dei tre uomini è eroica, noi non conosciamo più quella forza data dalle idee, e, una volta liberati nella riconquistata democrazia, Huidobro sarà ministro della difesa, Rosenkof senatore e scrittore, Mujica presidente della
repubblica; a lui, il presidente povero, Emir Kusturica ha dedicato un documentario, anch’esso presentato recentemente a Venezia.
La stesso Mujica ricordando la sua esperienza e la lotta per la sopravvivenza, ne parla come di un’occasione d’illuminazione, perché mai nella vita ha avuto così tanto tempo per essere se stesso e quegli anni così orribili, in cui ha rischiato d’impazzire, lo hanno rafforzato. Le parole della canzone The sound of silence:
“essere nell’oscurità e trovare in essa una riverazione, imparare ad ascoltare il silenzio” sono l’esperienza di Mujica.
Il popolo uruguayano però non ha fatto i conti con quel passato, con quella storia, con i suoi desaparecidos, nonostante la presidenza di Mujica, chissà se questo film creerà i presupposti perché quell’atroce esperienza non cada nell’oblio e la Storia non si ripeta.