di Laura Baldelli
E’ appena uscito nelle sale italiane “Sofia”, opera prima della giovane regista e sceneggiatrice marocchina Meryem Benm’ Barek, film che ha il sostegno di Amnesty International, vincitore a Cannes 2018 per la migliore sceneggiatura, nella sezione Un Certain Regard.
L’opera esprime un cinema politico ed estetico, raccontato come un thriller sociologico, preferendo inquadrature fisse e telecamera a mano nei momenti di intensità emotiva.
L’ambientazione è Casablanca, la capitale economica del Marocco, dove poche sono le donne velate e con il capo coperto, ma vige per tutti la legge n°490 che vieta con il carcere i rapporti sessuali pre-matrimoniali, ma questo non impedisce che ben 150 donne al giorno partoriscano figli fuori dal matrimonio.
E la storia parte da Sofia, una ragazza ventenne della classe piccolo borghese, un brutto anatroccolo che non studia, non lavora che sembra la cenerentola della casa in mezzo alle donne bellissime della sua famiglia, finché un giorno le si rompono le acque e partorirà una bambina, una gravidanza inconsapevole, un caso di diniego emotivo dello stato gravidico così forte che impedisce la crescita della pancia.
E’ un problema partorire in ospedale, tutti rischiano il codice penale e l’arresto, anche il personale sanitario e occorre necessariamente conoscere il nome del padre. Qui inizia il thriller con colpi di scena, che non svelerò, per lasciare le sorprese agli spettatori.
Ma alla regista e sceneggiatrice parte dalla vicenda di Sofia, per focalizzare i rapporti di forza tra le classi sociali nel Marocco di oggi, sfrenatamente neo-liberista che accentua sempre più il divario tra ricchi e poveri.
Meryem ha affermato che ha raccontato la società patriarcale marocchina dal punto di vista marxista, dove anche gli uomini sono vittime del potere, che oggi il capitalismo estremo accentua ancora di più e soprattutto ci evidenzia un mondo femminile, dove le donne hanno una capacità d’azione risolutiva molto lontano dai nostri stereotipi occidentali.
Nella vicenda la vittima non è solo Sofia, ma Omar, un giovane povero che vive nel quartiere popolare di Derb Sultan, luogo che provoca il terrore sul volto dei familiari della ragazza al solo nominarlo.
Omar è vittima designata del potere del denaro, della società patriarcale, della corruzione delle istituzioni del paese; persino Sofia ha potere decisionale più forte di Omar, grazie alla classe sociale di appartenenza.
Meryem non ci affascina con la luce abbagliante del Marocco, né con la tenerezza per la neonata, racconta realisticamente e con pudore una realtà quotidiana con le fratture sociali, dove gioca un ruolo importante nella narrazione la lingua parlata dai personaggi: i borghesi parlano un francese colto, i poveri il marocchino, che non è l’arabo classico e il francese sporco.
C’è solo una scena suggestiva, che si svolge in un terrazzo sull’oceano, in cui le donne borghesi belle ed eleganti decidono tutto, che ci evoca il Marocco dei tour operetor, ma non è da meno la scena girata nell’umile casa di Omar, dove anche lì anche le donne povere decidono tutto, obbedendo al sistema patriarcale.
Gli uomini nel film sono assolutamente marginali, incapaci di trovare soluzioni, presi invece dalla frenesia degli affari nella scalata alla ricchezza, che significherà intoccabilità, rispetto e potere.
Interessante anche la scelta degli attori, ognuno ha il ruolo a seconda della classe di appartenenza e Omar e Sofia non sono attori professionisti.
Nel film la religione islamica non viene neanche sfiorata, quello che regola la società è il denaro con i conseguenti rapporti di forza e di subalternità tra le classi sociali, violando i diritti umani.
C’è una scena costruita esteticamente da rievocare il dramma della natività cristiana, come a sottolineare simbolicamente che il dramma della povertà è universale e travalica i confini politici e religiosi.
Il film in Marocco è piaciuto molto al pubblico, solo la classe borghese lo ha invece criticato, così i movimenti femministi borghesi; ma a Meryem non interessano le donne borghesi che fanno proprie le logiche del potere, difendendo la propria casta, senza lottare per una rivoluzione sociale, a lei premono le donne povere, le più indifese, le più sfruttate che non hanno accesso all’istruzione, che senza la lotta di classe di un popolo intero non avranno diritti.
Per questo la regista è vicina all’associazione Solidarietè Feminine che aiuta le donne sole con bambini a trovare lavoro.
Molti critici hanno intravisto nel film l’influenza del regista iraniano Ashgar Farhadi, ma è anche forte l’ispirazione del cinema socio-politico dei fratelli Dardenne, per orientamento politico e formazione cinematografica dell’autrice in Belgio.
La regista è in Italia per promuovere il film ed è facile incontrarla nelle sale cinematografiche questa determinata ragazza, che ha cuore il cambiamento del suo paese a partire dalla lotta di classe.
Brava Meryem!