SEMPRE PIU’ SOLDI ALLE ARMI e SEMPRE MENO SOLDI A SALUTE E SANITA’

Maria Carla BaroniPCI

Il governo Meloni continua sulla strada del postfascismo. Mentre aumentano continuamente le persone in povertà sia assoluta sia relativa, il governo taglia il reddito di cittadinanza, ha tagliato la rivalutazione delle pensioni che era stata ottenuta dal governo Draghi e, per iniziativa del ministro della “Difesa” (da chi?) Crosetto, ovviamente appoggiato da quello dello “Sviluppo” (quale sviluppo?) Giorgetti, ha annunciato che le spese militari usciranno dal Patto di Stabilità.

Ciò in applicazione di quanto concordato nella base NATO di Ramstein in Germania, durante un  vertice straordinario sull’Ucraina tra i ministri della Difesa di 40 Paesi, nell’aprile 2022.

Tale decisione porterà l’Italia ad aumentare le spese militari fino al 2% del Pil entro il 2028, mentre attualmente la spesa per armamenti è pari all’1,54% del Pil. Secondo i due ministri occorre rimpinguare le scorte di armi debilitate dagli invii in Ucraina, fatti in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”) e in contrasto con il parere della stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine italiani/e, come risulta dai sondaggi: in sostanza contro l’articolo 1 della Costituzione, secondo cui “La sovranità  appartiene al popolo”.

Da dove verranno i soldi per tale incremento delle spese militari?

Ovviamente dal taglio delle spese sociali, per le pensioni, per la scuola pubblica (con il taglio di sedi e di organico a partire dal 2024/25), e soprattutto dal continuo definanziamento di quel Servizio Sanitario Nazionale che la legge istitutiva, la 833 del 1978, aveva previsto atto a mantenere la salute, prima ancora che per curare le malattie:  salute che l’articolo 32 della Costituzione  afferma essere “interesse della collettività”, oltre che “fondamentale diritto dell’individuo”.

Secondo il 18° rapporto del CREA Sanità – Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità, iniziativa nata nel 2003 presso l’Università di Roma Tor Vergata – alla sanità pubblica italiana mancano almeno 50 miliardi per arrivare a una incidenza media sul Pil analoga a quella degli altri Paesi europei. La spesa sanitaria italiana è salita dal 2000 al 2021 in media del 2,8% ogni anno, il 50% in meno degli altri Paesi UE. “Per recuperare servirebbe una crescita del finanziamento di 10 miliardi all’anno per 5 anni oltre a quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi”. Tuttavia “ nei documenti di finanza pubblica sono previsti meno di 2 miliardi all’anno, un settimo del necessario”. Il rapporto tra spesa sanitaria e Pil precipiterà al 6,1% nel 2025, un rapporto ben inferiore ai livelli pre Covid, già allora assai basso.

Intanto il Servizio Sanitario Nazionale è al collasso. Mancano medici/che sia ospedalieri/e che di medicina di base, mancano ostetriche, mancano in misura ancora maggiore  infermieri/e professionali, manca perfino il personale amministrativo, il che costringe i medici a sottrarre tempo al servizio diretto per la salute, già ridotto all’osso.

Intanto si avvantaggia la sanità privata mirante al profitto, che ovviamente non si occupa dei servizi territoriali di prevenzione, ma si concentra su cure specialistiche e macchinari costosissimi, sui quali si lucrano profitti. Una delle conseguenze, come ha messo in luce un recente studio pubblicato sulla rivista Lancet relativo alla Gran Bretagna, è che il continuo ampliamento del settore sanitario privato corrisponde a “un aumento significativo dei tassi di mortalità curabile, potenzialmente come risultato di un calo della qualità dei servizi sanitari”. Non abbiamo motivo di ritenere che ciò non avvenga anche nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia, in cui sono stati costruiti, sia per successive aggregazioni di strutture private, sia mediante nuove realizzazioni, autentici potentati economici.

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