Giorgio Langella – Responsabile Nazionale Dipartimento Lavoro PCI
Ogni “maledetto giorno” si contano tre o più morti per infortunio nei luoghi di lavoro, così che, quando ce ne sono meno, si tira un sospiro di sollievo e si crede che, in definitiva, le cose vadano meglio. Una forma di consolazione che ci porta alla rassegnazione.
Intorno a noi che stentiamo a vedere (spesso non lo vogliamo fare) che la società è diventata cattiva, crudele verso chi è in difficoltà. Il lavoro è sempre più precario, pagato male, faticoso … alienante. Queste condizioni comportano una minore attenzione, la necessità di lavorare di più e peggio per arrivare a fine mese. Ci costringono a mettere in secondo piano i diritti che erano stati conquistati nei decenni di lotte e crescita della consapevolezza di essere protagonisti.
E adesso? Si torna indietro. Si lavora male, senza futuro, sottomessi alla paura dal ricatto perenne di perderlo, quel lavoro per il quale ci si spezzano ossa e cervello. E chi non lo trova è disposto ad accettare ogni condizione anche quella al limite della decenza o oltre.
Per tanti la situazione è questa e non la si può cambiare. È così perché siamo divisi, preoccupati di guardarci l’ombelico, di polemizzare con il nostro simile, di odiare chi è più disagiato perché crediamo che sia lui a toglierci i diritti.
Sentenziano, lorsignori, che la Costituzione metta al centro l’individuo (che magari chiamano “persona” per farsi credere democratici) e non la collettività. Ci dicono incessantemente che i diritti sono individuali e, quindi, non uguali per tutti …
Hanno distrutto il valore fondamentale dell’essere realmente liberi: quella solidarietà architrave della Costituzione. Confondono il diritti con il privilegio così che chi ha un lavoro diventa automaticamente privilegiato e chi usa lo sfruttamento come forma normale del rapporto umano diventa quasi un esempio da seguire. Dipende dalla ricchezza accumulata e non importa come.
Il diritto è una merce che si può comprare, basta avere i soldi. Così diventa normale che chi è povero non si possa curare, che chi non trova lavoro venga considerato un fannullone, che chi non ce la fa ad arrivare a fine mese sia uno “sfigato”.
Si guardi la televisione, i canali internet. Là si tende a occultare la miseria e si ostenta la ricchezza e l’opulenza in ogni fotogramma di qualsiasi programma.
Sembra di vivere in una società perfetta o, comunque, in quella migliore possibile dove chiunque può emergere se diventa ricco e potente. Una volta lo chiamavano il sogno americano ma è solo capitalismo. Un’ideologia che divide l’umanità in “superiori” e “inferiori”. Non importa il merito anche se continuano a citarlo. Importa solo il conto in banca. È una società dove i vincenti sono, come diceva Fabrizio de Andrè, quei “banchieri, pizzicagnoli, notai coi ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai…”
Ci vogliono tranquilli, soddisfatti di perseguire un successo labile, persino felici di false condizioni di privilegio rispetto a chi sta peggio, a chi ci è inferiore.
Intanto, nei luoghi di lavoro, sempre di più ci si ammala, ci si infortuna, si muore nell’indifferenza indotta dal non parlarne, dal non informare, dal considerare notizie degne di nota quelle che possono convincerci della cattiveria del nemico. I responsabili della mancanza di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, invece, sono “persone rispettabili” che non vengono quasi mai toccate dalla giustizia e che, quando succede, possono permettersi avvocati eccellenti che trovano sempre il cavillo o la scappatoia per ottenere l’assoluzione, la prescrizione o pene talmente basse che non comportano nulla …
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Questo pensavo mentre l’ultima canzone, dolorosamente recitata da Pierpaolo Capovilla durante il concerto con i “Cattivi maestri”, finiva in un crescendo di suoni secchi, disperati, lancinanti.
Una canzone che parla di Giancarlo, un muratore morto cadendo da un’impalcatura. Uno dei tanti. Un concerto politico, nel quale le canzoni si susseguono gridando contro la guerra, la vendetta travestita da giustizia, l’indifferenza, il crescente odio verso i poveri, gli emarginati, i diversi … gli “inferiori” insomma.
Musica dura e spesso violenta, certo, ma come dev’essere nella società violenta e crudele nella quale stiamo precipitando. Testi che, in definitiva, sono dichiarazioni di quell’amore al quale dobbiamo aggrapparci per resistere, lottare e non farci soffocare dal nulla.
Così, un brano dopo l’altro, si passa dalla violenza della guerra, al sentimento di assenza di chi è stato ucciso mentre combatteva per il suo ideale in Kurdistan, uno dei tanti scenari di guerra; dalla desolazione di un bambino che non vuole accettare la realtà di suo padre morto durante un bombardamento in Yemen, alla “non vita” passata in galera …