Maria Carla Baroni – PCI
E’ ormai da più di vent’anni che, per merito delle varie forme assunte dal movimento delle donne (Marcia Mondiale delle Donne, Usciamo dal Silenzio, Se non ora quando? e ora, da sette anni a questa parte, Non Una Di Meno) l’8 marzo è ritornato a essere una giornata di lotta e non certo una festa, come ancora rimane nella mentalità di molti e molte.
Non c’è proprio nulla da festeggiare: tutt’altro. Già la situazione delle donne in Italia è la peggiore in Europa, come certificato dagli indicatori internazionali sull’occupazione e sulla povertà; e le conquiste degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, ottenute dal movimento nelle vie e nelle piazze e contemporaneamente dalle donne in Parlamento, soprattutto dalle parlamentari del P.C.I., sono state continuamente attaccate, erose e spesso di fatto annullate: dal neoliberismo, con i tagli allo Stato sociale e con nuove o rafforzate forme di sfruttamento lavorativo e di organizzazione del lavoro; e dalle destre radicali e dagli integralismi cattolici in materia di sessualità e riproduzione (chiusura progressiva dei consultori pubblici, attacco ideologico all’interruzione volontaria di gravidanza, in varie Regioni ostacoli alla somministrazione ambulatoriale della pillola RU486 nonostante l’apposita circolare del Ministero della Salute, permanere dell’obiezione di coscienza da parte dei ginecologi negli ospedali pubblici, mediamente del ‘70%; e ora, con il governo postfascista di Giorgia Meloni, progetti di legge per riconoscere ai feti la personalità giuridica).
A Milano e a Roma non sono mancati i tentativi per buttar fuori dalle loro sedi storiche rispettivamente la Casa delle Donne di Via Marsala e la Casa Internazionale delle Donne di Via della Lungara e solo dopo mesi di ampia mobilitazione i rispettivi Comuni, proprietari degli spazi, hanno accettato di confermare giuridicamente una permanenza di attività e di servizi che va a vantaggio dell’intera città.
Per non parlare poi delle continue violenze: dagli stupri ai femminicidi, dalle violenze psicologiche a quelle economiche soprattutto da parte dei compagni o ex compagni di vita in tutte le classi sociali, dal mobbing e dai ricatti nei posti di lavoro, al fatto che solo alle donne – nei colloqui preassunzione – si chiede se intendono avere figli. E ancora: per non parlare della cronica mancanza di asili nido e scuole dell’infanzia pubbliche e dell’insufficienza gravissima di servizi socioassistenziali pubblici, soprattutto domiciliari, per anziani/e e vecchi/e a fronte di una popolazione in costante invecchiamento e spesso malata.
In definitiva: le donne, soprattutto delle classi subalterne, non sono libere nei fatti né di non avere figli quando non li vogliono, né di averne quando invece li vogliono, anche a causa della mancanza di lavoro e del lavoro precario, in mansioni sia intellettuali, sia manuali. Le donne, dunque, sono vittime di violenza non solo da parte di compagni o ex compagni di vita o di altri familiari, ma da parte di tutto il sistema capitalistico e patriarcale, che opera contro di loro in molte forme, come una immensa piovra.
Dalla pandemia da Covid 19 poi la situazione è ancora peggiorata, facendo aumentare le disuguaglianze, non solo tra le classi, ma anche di genere: il crollo dell’occupazione ha colpito prevalentemente le donne, proprio in quanto tra loro è maggiormente diffuso il lavoro precario, discontinuo, sottopagato, e il tempo parziale imposto. Sono aumentate anche le varie forme di violenza nelle coppie e nelle famiglie a causa della convivenza forzata e del venir meno delle forme di socializzazione che stemperavano problemi e conflitti.
In questo quadro è fondamentale lo sciopero femminista e anticapitalista globale organizzato l’8 marzo in 70 paesi del mondo dal movimento Non Una Di Meno, in Italia dichiarato solo dai sindacati di base e non anche dai sindacati confederali, i quali con varie scuse rifiutano un confronto serio con il movimento, facendosi scudo della loro forza numerica e delle loro antiche origini.
Ma è ugualmente fondamentale prendere atto che due sole giornate di lotta all’anno – l’8 marzo e il 25 novembre – lasciano il tempo che trovano, in una situazione tanto arretrata e difficile, se non si riesce a costruire un ampio fronte femminista e anticapitalista che unisca, su obiettivi comuni e individuati congiuntamente, le donne delle varie forme della politica: dal movimento Non Una Di Meno alle donne dei partiti anticapitalisti, dai milioni di donne iscritte e operanti nei sindacati di base e confederali, a partire dalla CGIL, alle varie reti femministe, alle donne delle associazioni e alle numerosissime attive nei comitati locali che operano per il territorio, le città, i quartieri popolari, l’ambiente, la salute, il verde pubblico, che è il più grande decarbonizzante.
La lotta per l’emancipazione e per la liberazione delle donne deve diventare una lotta continuativa, 365 giorni all’anno, estesa via via in tutti i Paesi del mondo, per tutti gli anni che saranno necessari a costruire l’unità d’azione e la forza che le donne potenzialmente hanno: per liberare se stesse dal capitalismo e dal patriarcato e per preservare la vita sul nostro pianeta.
Un’utopia, un sogno? Forse. Ma – soprattutto – una necessità inderogabile. Non dimentichiamo che il capitalismo è un sistema maschile, basato sulla competizione, sulla forza, sulla violenza, sulla guerra. Le donne – come genere – vogliono una società basata sulla cura, sul prendersi cura delle persone, dei luoghi e del mondo: dalla casa alla città al pianeta.