“Per noi palestinesi fu più di un amico”

di Giambattista Cadoppi, esperto e studioso di questioni geopolitiche

In un momento in cui tutti, dalla destra estrema alla cosiddetta sinistra, sono uniti nella difesa dell’occupazione israeliana della Palestina è giusto ricordare che c’è stata anche un’altra sinistra che difendeva i più deboli. Questa intervista a Nemer Hammad, ambasciatore dell’OLP in Italia, mi sembra il modo giusto di ricordare un grande comunista quale fu Enrico Berlinguer e allo stesso tempo la causa palestinese.

C’è stato un tempo in cui tutti tranne la destra missina, tradizionalmente filoisraeliana, e poco altro erano schierati con i più deboli e non con i più forti. I tempi in cui Andreotti affermava: «Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista».

Parole oneste le abbiamo sentite nel discorso di fine anno del 1983 dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini il quale affermò che Ariel Sharon andava «bandito dalla società» mentre invece «quasi va baldanzoso di questo massacro fatto» (si riferiva alla Strage di Sabra e Shatila del 1982). Il 6 novembre del 1985 il Presidente del Consiglio Bettino Craxi, in una Comunicazione del Governo alla Camera dei Deputati in materia di politica estera, affermò in maniera risoluta la legittimità della lotta armata dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ai sensi della Carta dei Diritti dell’ONU.

Altri tempi. Altri uomini. Insomma, sarebbe il caso di rispolverare il vecchio libro di Vittorini “Uomini e no”. Non erano i tempi in cui si difendevano i diritti di tutti, dagli omosessuali agli animali passando dal Black Lives Matter, tranne quello dei palestinesi (e oggi anche quella dei cinesi, i nuovi obiettivi del maccartismo). È ora di affermare che anche le vite dei palestinesi hanno valore!

«Per noi palestinesi fu più di un amico»

La testimonianza di Nemer Hammad, ambasciatore OLP in Italia. Intervista di Umberto De Giovannangeli (L’Unità, 12 giugno 1994)

«Enrico Berlinguer fu per noi palestinesi più di un amico: fu un prezioso consigliere che ci aiutò a crescere politicamente». Il ricordo di Nemer Hammad, ambasciatore dell’OLP in Italia. La telefonata di Berlinguer ad Arafat nel bunker di Beirut, i retroscena della partecipazione del leader ai funerali. «Abbiamo solo un rimpianto: che Enrico non sia oggi con noi a festeggiare la ritrovata sovranità. Arafat l’avrebbe voluto con lui a Gerico».

«Enrico Berlinguer e stato per l’Olp e it popolo palestinese molto più di un amico. È stato un buon consigliere che ci ha aiutato a superare alcuni dei momenti più difficili della nostra storia». A parlare e Nemer Hammad, rappresentante dell’Olp in Italia, il dirigente palestinese the meglio ha conosciuto Berlinguer. «Se c’è un rimpianto da parte nostra — sottolinea Hammad è che Enrico non sia oggi con noi a festeggiare la riconquistata autonomia. Arafat l’avrebbe voluto vicino a lui a Gerico, il giorno del ritorno».

Cosa ha rappresentato per ii popolo palestinese Enrico Berlinguer?

Un amico sincero, certo, ma questa definizione non è ancora sufficiente. Ecco, Enrico Berlinguer e stato il leader politico dell’Occidente che di più e meglio ci ha aiutato a capire che da soli non avremmo mai potuto vincere, che per veder riconosciuti i nostri diritti nazionali dovevamo cercare alleati, non solo nel mondo arabo, e da queste convergenze costruire il dialogo con quella parte d’Israele che credeva nella pace. Ci ha aiutato a crescere politicamente, e questo non lo dimenticheremo mai.

A quando risale il primo incontro con il segretario del PCI?

Era il 1975, ed io ero da poco giunto in Italia. Quelli erano tempi davvero difficili per l’Olp: allora, palestinese era sinonimo di terrorista. Incontrai Berlinguer pochi giorni dopo lo scoppio della guerra civile in Libano. La prima cosa che mi disse era che dovevamo evitare ad ogni costo l’isolamento. Fu il suo primo consiglio, che resta valido ancora oggi. Mi disse inoltre che non dovevamo praticare una politica antioccidentale, perché questo avrebbe solo favorito Israele e i nemici della pace. Più tardi, nel corso degli anni, ho ripensato più volte a questo primo incontro, e i fatti che sono successi in questo lungo arco di tempo in Medio Oriente confermano lo spessore di statista che aveva Enrico Berlinguer, la sua capacità di precorrere i tempi.

In che modo si manifestò, sul «fronte mediorientale»,
questa capacità di Berlinguer di «anticipare i tempi»?

Vedi, pochi sanno che fu proprio Berlinguer a favorire i primi incontri tra esponenti dell’Olp e dirigenti della sinistra israeliana; questi incontri avvennero alle Frattocchie, e ricordo che Berlinguer voleva essere continuamente aggiornato sull’andamento dei colloqui. Credeva nel dialogo, nella possibile coesistenza pacifica di due Stati e due popoli in Palestina, e mentre in molti pensavano solo a schierarsi e a costruire steccati ideologici lui aveva compreso che in quel tormentato angolo del mondo si confrontavano due ragioni, due diritti e che la pace passava per il riconoscimento di questa verità. Se gli americani avessero ascoltato Berlinguer nel 1976 si sarebbe potuto evitare tanto spargimento di sangue, a partire dalla guerra in Libano del 1982.

E ai drammatici giorni dell’assedio di Beirut è legato uno degli episodi più significativi e commoventi nel rapporto tra Berlinguer e i palestinesi: la telefonata con Arafat, assediato nel suo bunker. Erano giorni terribili per l’OLP. L’esercito israeliano aveva invaso il Libano ed era giunto sino a Beirut. Gli israeliani, guidati da Ariel Sharon, assieme ai falangisti libanesi avevano deciso di risolvere «alle radici» il problema palestinese, annientandoci. Berlinguer mi chiese di poter parlare al telefono con Arafat, per potergli esprimere di persona il suo sostegno e quello dei comunisti italiani. Come puoi capire, non era facile collegarsi con Beirut. Ci trovammo nella stanza di Berlinguer alle 21.30. Passarono due ore, ma dal quartier generale di Arafat, nel sottosuolo di una Beirut in fiamme, non giungevano segnali. Queste due ore restano per me indimenticabili. Mi permisero di scoprire la grande umanità di Enrico Berlinguer. Mi scusai con lui per la lunga attesa, ma lui m’interruppe subito: Sono io che mi sento in debito — disse. Vorrei poter fare qualcosa di più incisivo per fermare questo massacro».

Alla fine, riuscì a parlare con Arafat. Fu una strana conversazione: Berlinguer parlava in francese, Arafat rispondeva in inglese. Ma bastarono poche parole per far avvicinare i due. Arafat ricordò quell’episodio appena ebbe notizia della morte di Berlinguer. «Quella telefonata di amicizia fu uno dei più grandi gesti di solidarietà che ho mai ricevuto nella mia vita — disse lo porterò sempre nel cuore».

Quello stesso anno Arafat viene invitato dal PCI alla Festa Nazionale dell’Unità.
Ma alla vigilia di quel 15 settembre accade un fatto terribile.

Nella notte giungono le prime notizie del massacro di Sabra e Chatila. Migliaia di palestinesi inermi, in maggioranza donne, vecchi e bambini, erano stati trucidati. Ricordo che Berlinguer restò sconvolto dai racconti e dalle immagini di quella mattanza.

Ma non si limitò a manifestare il suo sdegno. Assieme ad Antonio Rubbi cercò subito di agire sul governo italiano e le cancellerie europee perché si mettesse a punto un piano di pronto intervento in difesa della popolazione palestinese abbandonata alla merce delle milizie falangiste nei campi profughi libanesi. La sua ostinazione fu premiata: l’Italia riprese i contatti con altri Paesi europei per riportare in Libano una forza internazionale in grado di far rispettare quegli accordi sulla protezione dei civili palestinesi che Israele aveva disatteso, favorendo il bagno di sangue nei campi profughi di Beirut. Con la sua azione Berlinguer aveva mostrato come si potesse coniugare idealità e concretezza. Non si accontentava, Enrico, delle petizioni di principio che salvavano la coscienza ma non modificavano la realtà.

II suo non è mai stato un internazionalismo di maniera, e nei confronti dei palestinesi ebbe modo pin volte di manifestare una solidarietà concreta. Come quella volta a Mosca, quando di fronte alla dirigenza dell’Urss fortemente contrariata difese le ragioni dell’accordo giordano-palestinese.

I funerali di Berlinguer: una delle immagini che sono restate nel tempo è l’arrivo di Arafat a Botteghe Oscure per (l’ultimo saluto «all’amico fraterno»). Dietro quel viaggio a Roma vi è un giallo diplomatico. A distanza di dieci anni può rivelarne i particolari?

Ero a Tunisi quando appresi la notizia della morte. Fu deciso che a rappresentare l’Olp ai funerali fossimo io e Faruk Kaddumi (il ministro degli Esteri dell’Olp, ndr.)  Arafat ci chiamò nel suo ufficio per dirci che intendeva essere presente «a tutti i costi» al funerale del «suo fratello Berlinguer. Ma a impedirlo era un magistrato di Verona che aveva chiesto un ordine di arresto internazionale per «l’ingegnere Arafat Yasser» accusato di traffico d’armi con le Brigate Rosse; un’accusa che si rivelò ben presto del tutto campata in aria.

Come si sblocco la situazione?

Arrivammo la sera prima a Roma per verificare la possibilità della presenza di Arafat ai funerali. Non potevamo rischiare che venisse fermato al suo arrivo all’aeroporto-to. Per l’intera nottata si svolsero frenetiche consultazioni, che coinvolsero anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. Alla fine, ottenemmo le necessarie garanzie. Avvertimmo subito Tunisi, e così Arafat poté essere presente ai funerali.

Siamo giunti alla fine di questo viaggio nel tempo. Guardando con gli occhi» del presente a quegli incontri con Berlinguer, cosa resta di più valido e attuale?

Vedi, Berlinguer aveva compreso agli inizi degli anni Settanta, una verità che altri hanno assunto solo venti anni dopo: vale a dire che una pace stabile in Medio Oriente ruota attorno ad una giusta soluzione della questione palestinese. Ma Berlinguer ci insegnò anche un’altra cosa, di straordinaria importanza: che un vero leader deve saper prendere decisioni importanti anche quando queste appaiono impopolari alla sua gente. Gli accordi di pace con Israele sono anche una sua vittoria.

One Comment

  1. Emanuele

    Non sono “filo comunista” (anche se il mio voto di settembre è andato a Marco Rizzo di”Italia Sovrana e Popolare”).
    Non ho mai conosciuto persona con nome “Enrico” he non fosse d’animo buono.
    Vi è anche un’erba medicinale denominata “Buon Enrico”… (Blitum bonus-henricus (L.) Rchb., 1832)…!!

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