Lidia Magnani
L’aggiunta “ del merito” al nome del Ministero della scuola non è chiaro esattamente cosa significhi. Potrebbe essere un’operazione di immagine che lascerà le cose come stanno, oppure il preludio di politiche scolastiche più selettive e classiste rispetto a quelle che già caratterizzano il nostro sistema scolastico.
Chi ha a cuore i valori della nostra Costituzione, più che della parola “merito”, ancorché utilizzata in modo improprio, dovrebbe preoccuparsi della sostanza, cioè dello stato del nostro sistema pubblico di istruzione.
L’articolo 34 della Costituzione dice che ai “capaci e meritevoli” deve essere garantito il diritto ad accedere ai più alti gradi dello studio. Nella realtà l’Italia è al penultimo posto per quota di laureati fra i Paesi UE. Di fatto i “capaci e meritevoli”, se provengono da famiglie a basso reddito, non hanno i mezzi per continuare a studiare. La disoccupazione, i livelli salariali che in Italia sono tra i più bassi d’Europa, il costo degli alloggi, dei libri e dei trasporti, le scarsissime risorse messe a disposizione dallo Stato e dalle Regioni per il diritto allo studio, sono ostacoli che impediscono l’accesso agli studi universitari per tantissimi studenti.
Coloro che poi con molti sacrifici sono riusciti a laurearsi, magari brillantemente, non trovano un lavoro per il quale hanno studiato, o un qualsiasi lavoro che permetta loro di vivere autonomamente fuori dalla famiglia. Molti emigrano perché all’estero hanno migliori prospettive, i dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti per l’estero 117mila italiani di cui 30mila laureati. Un enorme spreco di risorse e intelligenze. Altro che “merito”! Sia il privato che il pubblico, con i tagli continui imposti dalle scellerate politiche UE e governative, non offrono prospettive: molte aziende cercano lavoratori, anche qualificati, che lavorino gratis, o con compensi bassissimi; la precarietà del lavoro non è limitata al periodo transitorio degli studi, è una condizione permanente. Eppure ci sarebbe bisogno di impiegare i nostri laureati e diplomati. In ogni servizio o ufficio pubblico c’è carenza di organico, nella sanità mancano medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, nella scuola insegnanti, educatori, in campo tecnico-scientifico geologi, ingegneri, architetti, tecnici.
Il 12,7% degli studenti minori non arriva al diploma superiore, ma abbandona precocemente gli studi. Negli ultimi dieci anni, degli oltre sei milioni di studenti iscritti al primo anno delle superiori negli istituti statali, un milione e 750 mila non sono arrivati al diploma. Sono dati che hanno un segno di classe. Con i fondi del PNRR dedicati all’istruzione, vengono finanziati progetti di contrasto alla dispersione scolastica e per l’innovazione tecnologica. Ma si tratta di fondi erogati una tantum, quindi di scarso rilievo sostanziale e che non intervengono sulle cause della dispersione. La UE si comporta come una matrigna schizofrenica: da un lato impoverisce i figli e non dà loro da mangiare a sufficienza; dall’altro, ogni tanto e quando le aggrada, li riempie di regali. Impone, complici i governi, misure economiche e sociali di contenimento della spesa che diminuiscono le risorse umane e finanziarie e poi spinge le scuole, in concorrenza fra loro, a presentare progetti per ricevere finanziamenti straordinari ( fondi FSE, fondi PNRR, ecc.); che poi sono a debito per lo Stato e non ci sarebbe bisogno dell’Europa.
Il contrasto alla dispersione scolastica richiederebbe politiche serie, di lungo periodo, a partire dai primi anni della scuola. La scuola dell’infanzia statale, così come la scuola primaria a tempo pieno, dovrebbero essere garantite a tutti, invece sono quasi assenti al Sud. Soprattutto richiederebbe scelte pedagogiche e didattiche basate su principi di inclusività e uguaglianza.
L’educazione presuppone la fiducia nelle possibilità del cambiamento, l’idea che la scuola è di tutti e per tutti, non il luogo dei predestinati. Come recita l’art. 3 della Costituzione, lo Stato ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza. Dunque, il diritto all’istruzione richiederebbe di mettere in atto le misure necessarie per promuovere il successo formativo di tutti gli studenti. Dobbiamo onestamente ammettere che la scuola attuale, anziché “rimuovere”, consolida e accentua le disuguaglianze di partenza. Don Milani e i ragazzi di Barbiana nel 1967 scrivevano: “Se non riesce a recuperare gli alunni più svantaggiati, la scuola diventa come un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Le differenti condizioni di partenza non sono “colpe”, dovrebbero costituire invece, per la scuola della Repubblica, una sfida positiva e un impegno ad adattare i percorsi didattici alle condizioni personali e ai ritmi di apprendimento degli alunni. Una scuola rigorosa richiede dai ragazzi impegno a dare il meglio di sè stessi, e non li abbandona se incontrano difficoltà. Per altro, come ben sanno gli insegnanti attenti e capaci, le diversità, anziché costituire un ostacolo e un rallentamento, sono opportunità di crescita per tutti gli studenti.
La cultura pedagogica dell’accoglienza e dell’integrazione, frutto positivo del rinnovamento culturale degli anni ‘70, aveva prodotto il diffondersi dei metodi di insegnamento più attivi, sostituendo o affiancando alla lezione frontale laboratori, percorsi individualizzati, lavori di gruppo, l’apertura al territorio, l’utilizzo delle Nuove Tecnologie, un tempo scolastico più disteso e ricco di esperienze, lo stimolo alla motivazione, l’imparare per gli alunni e gli insegnanti attraverso il confronto e la cooperazione.
Siamo scivolati progressivamente verso un abbassamento della qualità didattica, all’esaurirsi della spinta verso una scuola inclusiva, nell’organizzazione e nei metodi. Constatiamo oggi:
-Il ritorno al nozionismo e alla didattica trasmissiva. La scuola lavora troppo sull’accumulazione di sapere e trascura gli obiettivi più importanti: l’attitudine a porre e trattare problemi, la costruzione dei principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e dare loro un senso.
-Il diffondersi di una pratica didattica omologata e omologante, tecnicistica. Gianfranco Zavalloni la definiva “pedagogia della fotocopia” o del “copia incolla”, che mortifica la naturale curiosità del bambino per la scoperta, che non dà spazio all’operatività, al gioco, al movimento, all’esplorazione, all’autonomia.
-Tempi didattici sempre più compressi e parcellizzati, che non rispettano i tempi dell’apprendimento profondo e significativo.
-Differenziazione dei percorsi per gli alunni “diversi”; progressivo abbandono delle “buone pratiche” della didattica inclusiva. Tradimento della legge sull’integrazione degli alunni disabili nelle classi “normali” (troppi bambini disabili nei corridoi, troppi affidati esclusivamente all’insegnante di sostegno!).
-Il ritorno della competitività nella scuola che, come ha scritto Franco Fabbroni, intossica i luoghi della formazione di dinamiche antagonistiche e conflittuali “che aprono le finestre dell’aula al vento gelido dell’aggressività e della violenza: sempre più presente nelle attuali dinamiche dell’asocialità adolescenziale e giovanile”.
Non c’è da aspettarsi niente di buono per la scuola dal governo delle destre, che già sotto le loro bandierine del “merito” hanno dato pessime prove in passato. Né si potranno rimpiangere i governi del PD. Il contro veleno alla scuola “di classe” potrà venire dalle lotte sociali e dal ruolo che sapranno giocare i protagonisti dell’educazione, gli insegnanti, gli studenti, i genitori, i ricercatori.