Cento anni fa, la marcia su Roma.

Di Francesco Violante, Segretario PCI Bari, Comitato Regionale PCI Puglia

Il contesto entro il quale nascono i movimenti fascisti è costituito dalla profonda crisi delle regioni europee orientali e sud-orientali dovuta alla “lunga grande guerra” tra 1911 e 1923. Determinante, per la nascita dei fascismi europei, è il Regno d’Italia, prima con l’avventura coloniale in Tripolitania, Cirenaica e Dodecaneso – cosa che fa precipitare la crisi nei Balcani tra 1912 e 1914 – poi con l’elaborazione di una risposta controrivoluzionaria da parte della classe dirigente liberale a nuovi movimenti collettivi urbani e rurali, in cui confluiscono contraddittoriamente adesione al modello sovietico, spinte anarchiche e libertarie. Intorno al nazionalismo interventista e combattentista, e al reducismo insoddisfatto della pace, si coagulano invece gli interessi antipopolari e antioperai di una compagine sociale che va dalla grande borghesia agraria agli industriali, e che ricomprende tuttavia anche molti appartenenti alla piccola borghesia, scossi dalle rivendicazioni operaie e timorosi di retrocedere nella scala sociale: tutti conniventi nella tolleranza e nel sostegno alla violenza fascista. A questo si aggiunge il ruolo decisivo del Regno Unito – prima preoccupato del possibile disimpegno dell’Italia dalla Triplice Intesa dopo Caporetto, poi terrorizzato da un esito “sovietico” in un Paese cruciale per la strategia inglese nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente – che sostiene occultamente e ampiamente, anche grazie all’appoggio massonico, i Fasci di combattimento, poi Partito nazionale fascista.

Cento anni dopo l’episodio della marcia su Roma, vediamo di nuovo operare in Italia fattori di crisi profonda, originati nell’Europa orientale e nel Mediterraneo, la debolezza delle classi dirigenti e la loro subordinazione a interessi esterni o personali, l’annichilimento dell’opposizione sindacale e la divisione di quella politica, la costruzione di un contesto informativo in cui gli spazi di dissenso e critica sono sempre più ridotti, la scuola e l’università come terreni di scontro. Al governo, una forza egemone conservatrice che eredita le molte anime del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale, dal “fascismo perenne” di Almirante all’atlantismo di Michelini; intorno, il declino violento dell’impero globale di cui siamo periferia, la disarticolazione degli equilibri economici e geopolitici egemonizzati dall’Occidente e la nascita di nuovi, basati sulla crescita dei Paesi del Terzo mondo.

Il trionfo della reazione fu agevolato dalla faglia aperta nel socialismo italiano intorno alla questione rivoluzionaria, tra comunisti unitari, puri e socialisti riformisti. «La reazione si è proposta di ricacciare il proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere», sostenne Gramsci, invitando poi all’unità, al fronte unico contro il fascismo, dopo la scissione di Livorno.

Questo era, ed è, l’obiettivo del Partito Comunista Italiano: farsi nucleo di elaborazione teorica e di prassi efficace di un ampio fronte democratico contro gli strumenti della reazione delle borghesie liberali e conservatrici vicine agli interessi sovranazionali, si chiamino essi fascismo, autoritarismo populista, o atlantismo.

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